liberi, in quei momenti

L’arte, la prigione

“Da quando ho incontrato l’arte questa mia cella è diventata una prigione”.

Sono le ultime parole dello splendido film dei fratelli Taviani Cesare non deve morire. Nel film, dopo la trionfale rappresentazione del Giulio Cesare di Shakespeare nel teatro del carcere, nelle sequenze finali, a colori, mentre le prove sono in un bianco e nero struggente, corde profonde dell’anima, di strazio, di pentimento, di tradimento, i protagonisti tornano in cella. Giovanni Arcuri, Salvatore Striano e Cosimo Rega, che la camera segue fin dentro la cella per farci ascoltare, in un silenzio commosso, questa frase. Sembra quasi un contraddittorio di quella libertà testimoniata da molti che la rappresentazione, l’essere attori, e anche scrittori, rappresenta. Sono i due volti del film, colore e bianco e nero, consapevolezza, disperazione, dignità orgoglio. Pentimento, il soffio dell’arte che aiuta, libera, ma che non può essere tutto. Quando è umana, pone un domanda forte, scolpisce una frase come quella di Cosimo.

Chissà cosa vuol dire, nel chiuso di una cella, aver avuto questo strepitoso successo con l’Orso d’oro di Berlino!! Sono veramente tutti straordinariamente bravi i detenuti-attori. E chissà se mischiati in quel pubblico intellettuale e alto borghese (chiacchiera dell’ultimo incontro, del salotto, della buona cucina, dell’ultima mostra visitata, ma poi restano alla fine attoniti, in un silenzio significativo, del cuore) che li vede al cinema ci siano i loro figli, quelli che il dramma, la vergogna, l’amore sincero, vivono per davvero. Non credo di saperne molto, ma aspetto di rivedere Cosimo, Giovanni e gli altri per il Progetto Teledidattica in carcere, di cui ho parlato nei post precedenti. Il film mi è rimasto nelle ossa, nelle labbra, nella mente.

“Siamo rimasti colpiti – dicono i Taviani – dalla forza di persone escluse dagli affetti, certo con delle colpe, che col teatro hanno la possibilità di essere altro. E in quel momento sono liberi”.

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