ho narrato senza nascondimenti

Autobiografia di un ergastolano

“Adesso soltanto il silenzio della notte. E la tempesta della mente. Lo sgomento. Finalmente il dolore, forse, la comprensione…Da quel momento io sono un altro. Migliore, peggiore? Non lo so. Certamente una persona diversa, colma di un dolore nuovo. Di un dolore irrecusabile e inestinguibile, ma finalmente vero. Perchè consapevole di provenire da una ferita non rimarginabile inflitta non a me, ma da me agli altri. Da me alla vita. Di colui che avevo ucciso, di mia moglie, dei miei figli, della famiglia in cui ero cresciuto, della comunità a cui appartenevo”

Sono le parole di Cosimo Rega, Cassio nel film dei Taviani Cesare deve morire girato nel carcere di Rebibbia, vedi post precedenti, nella sua autobiografia Sumino ‘o falco, appena uscita per le edizioni Robin. E’ il momento della sentenza, condanna all’ergastolo per omicidio. Con il dolore autentico, il pentimento inizia il difficilissimo cammino di cambiamento, aiutato, scrive Cosimo, da psicologi e responsabili di Rebibbia, ostacolato, in molti casi, dalle condizioni disumane di altre carceri sperimentate fin dal 1975, anno del primo dei tre arresti. Il libro, autentico, frutto di un lungo processo interiore ed esteriore, con il grande aiuto del teatro (“Dopo che ho conosciuto il teatro ‘sta cella me pare ‘na prigione”), dimostra la facilità con cui un ragazzo, Sumino, pieno di volontà (era andato a lavorare a Torino, dove ha un grave incidente che li mette fuori uso la mano sinistra) si lasci irretire dal guadagno immediato e non sappia resistere alla seduzioni della malavita.

Ecco un altro brano significativo, verso la fine del libro, quando scontando l’ennesimo isolamento, matura una coscienza definitiva:

“non del male astratto, ma del male da me compiuto contro la vita, del dolore causato, della rovina provocata ad altri e a me stesso. Intuii allora, so adesso, che non potrò mai soggiogare questo sentimento, o rimuoverlo, che mi seguirà passo passo finché sarò vivo: e sarà la mia vera pena. Come la capacità di convivere con esso è la mia porta stretta.

Ho compreso, infine, che in ogni essere umano c’è la possibilità di fare sia il bene che il male. Leggendo, studiando, parlando … ho anche cercato di comprendere il come e il perché del male, il male di cui ho qui sopra parlato, ha dominato una parte così rilevante della mia vita. La prima domanda è sempre quella: perché io?

Ho letto memorie di compagni, ascoltato a volte il loro pianto, so che sono sinceri: ma so anche che non hanno ragione. Cercano come le cause, le scaturigini della nostra maledizione e quasi sempre le pongono nella condizione familiare, nel contesto sociale, nell’infanzia e adolescenza e giovinezza priva o quasi  di istruzione, nell’ambiente culturale in cui sono cresciuti … quasi un destino ineluttabile. Io so che non basta. Quelle cause, quelle condizioni, sono dati reali, hanno avuto e hanno una rilevanza grande: ma non bastano a spiegare le scelte che ho fatto, la vita che ho deciso di vivere, le azioni che ho compiuto, il dolore che ho provocato … la morte – no: le morti – che mi sono portato dentro per tanti anni … fino a quel momento. …. Soltanto io ho fatto quello che ho fatto: soltanto io ho attraversato un trentennio di dissipazione della vita e a tratti l’inferno, per giungere infime alla mia porta stretta.

Tutto ciò che io ho narrato in questo racconto della mia vita – e ho narrato senza nascondimenti – dovrebbe servire, anche, a dare risposta a quella domanda: ma resta la sensazione che quella domanda non ha risposta. Perché io? Forse soltanto perché mi fosse possibile giungere a questa porta?”

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