Per Antonia Pozzi e la Valsassina

La sfida dell’altezza e “il semplice riconoscimento”.

Sì bello morire

quando la nostra giovinezza arranca

su per la roccia, a conquistare l’alto.


L’ampio e l’altezza eroica, la sfida, il rischio, la scalata. Bruciare la candela da tutte e due le parti. Continua la poesia Alpe di Antonia Pozzi (Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, Luca Sossella editore, con allegato un bellissimo DVD con la storia della poetessa raccontata da un gruppo di ragazzi, sui suoi luoghi, Milano, Pasturo, l’immensa tragica ultima notte sulle mura silenti di nebbia e freddo di Chiaravalle).

“Bello cadere, quando nervi e carne,

pazzi di forza, voglion farsi anima;

quando, dal fondo di una fenditura,

il cielo terso pare un’imparziale

mano che benedica e i picchi, intorno,

quasi obbedienti a una consegna arcana,

vegliano irrigiditi. Sulle vette,

quando la brezza che ci sfiora è l’alito

di vite arcane riarse di purezza

ed il sole è un amore che consuma

e, a mezza rupe, migrano le nubi

sopra le valli, rivelando a squarci,

con riflessi di sogno, la pensosa

nudità della terra, allora bello

sopra un masso schiantarsi e luminosa,

certa vita la morte, se non mente

chi dice che qui Dio non è lontano”.

“Pasturo, un fazzolettino d’Italia, è un borgo arrampicato alle pendici della Grigna, nell’Alta Valsassina, sopra Lecco. Antonia percorre ogni sentiero, scala ogni roccia: ne conosce ogni angolo” (Alessandra Cenni, In riva alla vita. Storia di Antonia Pozzi poetessa, Rizzoli).

E’ il rifugio di Antonia Pozzi, la sua tana dei libri, e anche l’aria e la natura, verso l’alto che le piaceva incontrare, perfetta sciatrice, scalatrice, amante della bicicletta (sono, con grande tenerezza, i luoghi natali di don Giacomo, vedi post precedente).

La grande poetessa dalla vita breve, nata cento anni fa, il 13 febbraio a Milano, lasciatasi morire in un fredda notte d’inverno del 3 dicembre del 1938, non a caso davanti alla Abbazia di Chiaravalle, è una di quelle voci (“profeti e re”) straziate dal desiderio di vivere e dalla fragilità, dall’impotenza dell’amore, dalla grandezza di alcuni incontri che lasciano flagellati di selvaggia solitudine nella loro consumazione.


“Antonia si inerpica sulle montagne: Grigna, Tuchett, Castelletto. Si aggrappa alle rupi con le dita, aderisce alla roccia, guadagna la vetta e si guarda intorno: l’anfiteatro delle cime nevose è disteso sotto lo strapiombo, in una vertiginosa profondità scorge la rupe formata dai massi appena supertati: la fragilità umana sembra aver varcato l’abisso terrestre in virtù del solo coraggio. La materia conquistata non è più inerte e nemica. Concreta immagine della volontà d’ascesa sembrano le svettanti guglie dei monti. Strappa una stella alpina: il fiore che rappresenta la luce dell’alta montagna” (Alessandra Cenni, In riva alla vita….)

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