Irene Baccarini racconta il Dante a teatro dei detenuti di Rebibbia

Ognuno con il suo Dante

«Che cosa ti ha lasciato Dante?» – «L’emozione dello spettacolo».
Irene Baccarini, studiosa, poetessa, dottoranda in Lettere a Tor Vergata con una tesi su Mario Luzi, volontaria del progetto Teledidattica in carcere a Rebibbia (vedi post precedenti) racconta il Dante a teatro dei detenuti di Rebibbia, intervistando i protagonisti per la rivista brasiliana Mosaico. Grazie Irene

«Che cosa ti ha lasciato Dante?» – «L’emozione dello spettacolo», mi risponde Antonio con una naturalezza tale, che quasi fa pensare che la Commedia sia stata scritta per diventare una rappresentazione teatrale. L’emozione brilla ancora nei suoi occhi, come se il sipario si fosse appena chiuso. In realtà è passato del tempo dall’ultima rappresentazione dantesca. Dalla città dolente. Colpa, Pena e Liberazione attraverso le Visioni dell’Inferno di Dante Alighieri, così si intitola la drammaturgia realizzata da Fabio Cavalli con gli attori-detenuti del carcere romano di Rebibbia, i quali con lo stesso regista, e con lo stesso successo, hanno portato in scena anche Shakespeare ed Eduardo De Filippo.

Ho visto per la prima volta lo spettacolo nel 2009, in piedi, perché il teatro del carcere era occupato totalmente dagli studenti delle scuole invitati ad assistere. Ripensando a quel giorno, capisco come mai l’emozione di Antonio sia ancora tanto viva. A tre anni di distanza ho voluto rivivere quel momento, forse anche più intensamente: è nata così l’idea di una Conversazione su Dante con gli attori del dramma, alcuni dei quali anche studenti universitari del Progetto Tele-didattica, portato avanti dell’Università di “Tor Vergata”.

L’accostamento carcere-inferno sarebbe molto facile e scontato, come leggiamo nel copione a cui i detenuti hanno lavorato insieme al regista. In realtà il disegno della riduzione teatrale dell’Inferno è molto più articolato e riesce per questo a sorprendere e a divertire lo spettatore, ma soprattutto a farlo pensare… A questo cammino di riflessione viene avviato immediatamente lo spettatore dalle parole della voce del narratore Rega:

Chi ha vissuto la galera, ignora la letteratura. Quasi sempre. Credete a me.

Noi che viviamo qui dentro, per parlare della nostra condizione, spesso chiamiamo in causa l’immagine di un inferno. Ma l’ignoranza ci impedisce di trovare un collegamento con la metafora Dantesca della “Città Dolente”. Se avessimo avuto l’opportunità di conoscere la letteratura italiana e Dante Alighieri, varcando il portone del carcere sentiremmo risuonare i celebri versi: Per me si va per la città dolente – Per me si va ne l’etterno dolore – per me si va tra la perduta gente. Versi che abbiamo imparato tardi, quando ormai avevamo varcato la soglia: lasciate ogni speranza … Meglio tardi che mai.

La privazione della libertà, la vita reclusa, la riflessione sulle proprie responsabilità, sono causa di un dolore che è difficile da esprimere. Per questo facciamo teatro: per cercare di esprimere il senso di questo dolore attraverso le parole di chi ha la fantasia, l’immaginazione, la sensibilità per farlo: i grandi poeti. Quando poi il poeta è Dante – un condannato, un esiliato, uno che ha passato metà della sua vita da latitante – quando è Dante a parlarne, bisogna ascoltarlo e riflettere.

Per questo siamo qua. Ciascuno di noi col suo Dante personale, con i versi scovati nella biblioteca del carcere, versi difficili, all’inizio misteriosi. Poi, piano piano, giorno dopo giorno, versi compresi, apprezzati, amati, perché – che ve lo dico a ffà – Dante, se lo conosci, te ne innamori. Magari tradito e un po’ storpiato in lingue e dialetti diversi, come avete sentito all’inizio: spagnolo, Napoletano e poi sentirete il calabrese. Ma cosa importa? Sono convinto che Dante non si offende.


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