La condizione umana come soglia, come limite tra libertà e detenzione

Re dell’infinito in un guscio di noce

Io sono l’equilibrio su cui cammino. Io sono il vuoto che incontro quando cado e smetto di essere me stesso. Io sono il desiderio di dare un senso a quel che sono (Fabio).


Ma io potrei essere confinato in un guscio di noce e sentirmi re dello spazio infinito (Shakespeare, Amleto II, 2).

Per Gribaudo editore, 2004, a cura e con le foto  di Paolo Ranzani, La soglia: vita, carcere, teatro, racconta, con la testimonianza preziosa di Luigi Lo Cascio, uno spettacolo teatrale, appunto La soglia, condotto dai detenuti della Casa di reclusione di Saluzzo. Scrive Lo Cascio nell’introdure il volume, pag.4:

Ritratti dal carcere era il titolo originario di questa raccolta. Un immediato gioco di parole avrebbe portato a fantasticare sulle opportunità “evasive” date dal teatro e dalla fuga di foto fin nel mondo dei cittadini liberi: ritratti, tratti fuori, proiettati all’esterno… Credo, invece, che nello spettacolo La soglia non si cerchi di dar corpo a nessun inganno consolatorio. Si prende sul serio la condizione umana, come soglia appunto, come limite tra libertà e detenzione. Non si tenta di superare, di aggirare la prigionia. Nel gesto teatrale, in un’esaltante aderenza e compromissione degli opposti, la congiuntura delle due istanze di schiavitù e arbitrio viene radicalizzata. E diventa principio di rivolta, di metafisica sommossa. Questi attori, che vivono giornalmente e sulla propria carne il tormento della detenzione, sperimentano, questionano, indagano l’essenza sfuggente della libertà. La libertà non è uno stato naturale. la libertà è un evento insolito, che sta a noi lasciare affiorare nonostante la tortuosità del cammino accidentato.

E uno degli attori, Giuseppe, p. 15, scrive:

Siamo riusciti a far parlare di noi in modo diverso, mostrandoci senza quelle maschere che nell’immaginario di troppi abbiamo stampate sul viso. Abbiamo offerto un prodotto umano e, come tutte le cose umane, ha suscitato emozioni e sensazioni, in cambio non abbiamo chiesto nulla. Molti di noi non sapevano cosa fosse il teatro, pensavano a qualcosa di tradizionale, fatto con effetti speciali, nessuna immaginava che saremmo diventati protagonisti delle nostre storie. Nulla di smielato, solo sentimenti veri, umani, come rabbia, rimorso, passione, morte e rinascita come quando si oltrepassa la soglia. Il nostro è un teatro povero, da cantina, fatto per chi cerca emozioni e non teme i contraccolpi.

E Fabio, p18:

Io sono l’equilibrio su cui cammino. Io sono il vuoto che incontro quando cado e smetto di essere me stesso. Io sono il desiderio di dare un senso a quel che sono.

Ma nel volume, da una parte frasi dei detenuti, dall’altra foto, commoventi e drammatiche, non tace la durezza del carcere, il suo essere molto spesso un cammino diseducativo, come nelle frasi marmoree durissime di Pasquale, a p.32, per cui la detenzione “è una vera e propria scuola di delinquenza” dove vieni a contatto con un mondo costruito sulla malavita, su svariate attività illecite, dove regna la depressione.  “Si è abbandonati a se stessi. Non ti senti una persona che deve essere riabilitata e reinserita in società”. Poco più avanti però la testimonianza di come il teatro abbia cambiato questa prospettiva, dentro una attività comune di laboratorio. Sono le due facce della medaglia, di un processo estremamente importane per la nostra società, specialmente in questo momento in cui, se aumentano le iniziative di questo genere, la piaga del sovrappopolamento e della invivibilità delle carceri è arrivata al culmine.

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