Io ho vissuto molto e mi pare di aver trovato quello che occorre per essere felice.

Il viaggiatore estremo e il ritorno

“E mi sentii ad un tratto l’anima leggera, come mi fosse stato tolto quel nervo morale malato che mi faceva soffrire”

Siamo all’ultima pagina del breve romanzo di Lev Tolstoj La felicità coniugale, uno degli ultimi libri letti in Alaska da Cris McCandless, come racconta Jon Krakauer nella ricostruzione dell’itinerario del giovanissimo viaggiatore estremo nel bellissimo libro Nelle terre estreme, in italiano per Corbaccio editore. Cris aveva sottolineato la frase che riporto nel precedente post. Il 2 luglio 1992 finisce di leggere il romanzo e decide che la sua permanenza in quel luogo selvaggio (sia pur non esplorato come avrebbe voluto) è giunto al termine. Il 3 luglio riparte per tornare. A casa, altrove? non lo sapremo mai con certezza, i due errori fatali lo incastrano in quel luogo, prigioniero della natura violenta e così amata: il torrente che ha guadato all’andata è diventato un fiume in piena (qualche chilometro più avanti avrebbe potuto passarlo abbastanza comodamente, ma non aveva cartine dettagliate), tornato al “campo base”, sfinito, ingerisce radici di patate velenose. Il romanzo del grande russo lo commuove, specie in questa frase della protagonista (Cris cerca frasi per la sua esperienza, spesso estratte dal contesto e dalla trama):

“Soltanto ora capivo perché egli diceva che la felicità sta solo nel vivere per gli altri …  Io ho vissuto molto e mi pare di aver trovato quello che occorre per essere felice. Una vita tranquilla, appartata nella nostra solitudine di campagna….”

Queste frasi però si compiono nel romanzo solo nella pagina finale, dove all’inquietudine del viaggiare ad ogni costo  (per la giovane protagonista di Tolstoj il miraggio della vita mondana e degli eterni amori romantici senza mai una fine) si sostituisce la consapevolezza che la felicità e l’amore stanno nel donarsi, principalmente ai figli. Possiamo solo immaginare cosa avrebbe fatto Cris se quel fiume non avesse sbarrato i suoi propositi. Sappiamo con certezza, invece, dai biglietti pervenutici, che è morto ringraziando tutti; Dio di una vita piena, felice, dopo attimi di sconforto, imprecazione, dramma. Il suo sorriso resta per me un mistero, ovvero una icona, uno specchio. La sfida, grande o piccola, ingenua, fuga o titanismo, il voler continuamente provarsi fin dove arriva la forza o l’intelligenza e la bellezza di un abbraccio, la commozione profonda di essere perdonati e di poter perdonare perché si è ricevuto un grande dono.

Ecco le ultime frasi di Tolstoj che rafforzano la frase di Pavese del post precedente (ma a cui il grande scrittore russo fu decisamente poco “conforme”, nella vita come nella scrittura):

“Ormai bisogna che noi ci facciamo da parte per lasciar libera la via….”  “E’ così amica mia”, concluse piegando a sé il mio capo e baciandomi. Non era il bacio di un amante, ma di un vecchio amico.

E dal giardino, sempre più forte e dolce saliva la frescura odorosa della notte, i suoni e il silenzio diventavano sempre più solenni, e in cielo sempre più fitte si accendevano le stelle. Io lo guardai (si tratta del marito, molto più anziano della ragazza che ora, dove varie delusioni e promesse di avventure non perseguite, sta riflettendo sulla sua “vita amorosa”), e mi sentii ad un tratto l’anima leggera, come mi fosse stato tolto quel nervo morale malato che mi faceva soffrire. Compresi ad un tratto con chiarezza e con calma che il sentimento di quel tempo era irrevocabilmente trascorso, come il tempo stesso, e che il farlo tornare non solo era impossibile, ma sarebbe stato penoso e impacciante. Ma, e davvero era stato così bello quel tempo che mi sembrava  così felice?  E così lontano, così lontano era quel tempo? (Allude alla storia d’amore col marito, tanto bella quanto immediatamente messa in crisi dopo qualche mese di matrimonio per concezioni di vita diversissime, mondane per lei, campagna per lui, e una eccessiva gelosia dell’uomo)…

Presi il bimbo tra le mie braccia, ricopersi le sue gambine rosse che si erano scoperte, me lo strinsi al petto e, sfiorandolo appena con le labbra, lo baciai ….

Mio marito mi si avvicinò, ed io copersi rapidamente il viso del bambino e poi lo scopersi di nuovo. “Ivan Sergeeviƈ”, esclamò mio marito, toccondaolo con il dito sotto il mento. Ma io ricopersi di nuovo e rapidamente il piccolo Ivan Sergeeviƈ: nessuno, tranne me, doveva guardarlo a lungo. Mi volsi a mio marito; i suoi occhi ridevano guardando nei miei e per la prima volta dopo lungo tempo mi era facile ed era per me una gioia guardare così nei suoi occhi.

Da quel giorno ebbe fine il mio romanzo con mio marito. L’antico amore mi divenne una rimembranza cara e irrevocabile, e un nuovo sentimento d’amore per i miei bambini mise principio per me a un’altra vita, ormai del tutto diversamente felice, e che io non ho ancora finito di vivere nel momento presente.

No Comments

Leave a Reply

Your email is never shared.Required fields are marked *