Non so quanto è durato quel momento, ma fu come rinascere

La colpa, il cuore, la parola

“Anche ristretto in un carcere un uomo segnato da un fine pena mai può costruirsi dei sogni. Ma allora cos’era che mi turbava?”

Ecco le ultime pagine di Cosimo Rega, Sumino ‘O Falco. Autobiografia di un ergastolano, edito da Robin, da cui è tratta l’azione teatrale di cui parlo nel post precedente per invitarvi giovedì 29 alla Vallicelliana di Roma dove si tiene lo spettacolo:

Ogni volta che entravo nel mondo incantato del teatro, che mi impadronivo di un nuovo personaggio, la magia dell’arte si impossessava di me e, con mio stupore, riuscivo a sollevarmi dalla tristezza che il carcere ti riserva ogni giorno e che rischia di affossarti per sempre. Di più: i successi, gli apprezzamenti di stima che ricevo ad ogni rappresentazione, il rapporto che riuscivo a stabilire con il pubblico e i compagni d’arte, suscitavano in me la convinzione che anche ristretto in un carcere un uomo segnato da un fine pena mai può costruirsi dei sogni. Ma allora cos’era che mi turbava? Cos’era che consumava la mia allegria, la mia serenità? Cos’era quella sensazione di insoddisfazione amara che mi pigliava al pensiero di dover interpretare Re Claudio? Non la mia vanità, ne ero certo: ero vecchio per interpretare Amieto. E allora?

Piovigginava, l’agente cercò di farmi desistere, ma decisi di andare ugualmente nel mio cubicolo, quello che avevo ribattezzato lo spazio del pensiero.

Mi sentii stranamente diverso, animato da una vitali­tà insolita, da una forza nuova.

Quindici passi fino al muro, quindici per tornare al cancello. Su e giù, su e giù… La pioggia lentamente mi bagnava i capelli, poi la maglietta, infine la carne. Era piacevole. Qualcosa stava avvenendo in me, lo sentivo: ed era come se grado a grado si liberasse e uscisse da me all’aria, al mondo. Respiravo lentamente come per favorire quell’osmosi… e come per rimanere in quello stato di grazia cui la pioggia, che ormai mi avvolgeva totalmente, sembrava offrire un bozzolo o una coltre.

Non so quanto è durato quel momento, ma fu come rinascere avendone coscienza, aprire gli occhi al mondo per la prima volta ma sapendo del mondo già tutto.

Poi la pioggia cessò; sfumarono le nuvole che na­scondevano il sole; il ciclo si riprese tutto il suo azzurro. E mi avvidi che la medesima metamorfosi era avvenuta in me.

Sentii che dalla mia mente era caduto l’ultimo velo. Seppi di aver trovato la risposta. O forse di averla sem­pre posseduta ma ora finalmente dissepolta dal groviglio di errori e rifiuti sotto ai quali l’avevo nascosta. Ed era semplice: accettare di fare i conti con tutto ciò che era in me, con la mia reale natura, affinchè fra le mie incli­nazioni prevalessero quelle – che pure c’erano, e rea­li e vitali fin dall’origine – all’onestà dei propositi e a un’empatia universale. Compresi che l’inquietudine per

la parte da interpretare sulla scena non era in realtà che la concretizzazione di un nodo psicologico e morale che non riuscivo né a sciogliere né a tagliare. Il malessere che mi tormentava nell’approfondire lo studio della par­te di Claudio aveva un’origine molto profonda: il mio senso di colpa. Un sentimento letale sempre in agguato, che abita e abiterà per sempre – lo intuii allora, lo so adesso – una parte del mio animo, della mia mente, che mi attacca a sorpresa, spietato, senza preavviso, magari in un momento felice, magari al centro di una giorna­ta attiva e serena. Un male che non ha cura, inguaribi­le, che nessuna pena vissuta e scontata qua dentro può estinguere: poiché è, ormai radicata nella mia coscienza, nient’altro che la consapevolezza del male.

Non del male in astratto, ma del male da me concreta­mente compiuto contro la vita, del dolore causato, della rovina provocata ad altri e a me stesso. Intuii allora, so adesso, che non potrò mai soggiogare quel sentimento, o rimuoverlo, che mi seguirà passo passo finché sarò vivo: e sarà la mia vera pena. Come la capacità di convivere con esso è la mia conquista, la mia porta stretta.

Ho compreso infine, non senza sgomento, che in ogni essere umano c’è la possibilità di fare sia il bene che il male. Leggendo, studiando, parlando con Angiolo o con Mario o con la mia psicologa… e sempre con me stesso… ho anche cercato di comprendere perché e come il male, quel male di cui ho qui sopra parlato, ha dominato una parte così rilevante della mia vita.

La prima domanda è sempre quella: perché io?

Ho letto memorie di compagni, ascoltato a volte il loro pianto, so che sono sinceri: ma so anche che non hanno ragione. Cercano come me le cause, le scaturigini della nostra maledizione e quasi sempre le pongono nel­la condizione familiare, nel contesto sociale, nell’infan­zia e adolescenza e giovinezza priva o quasi di istruzione, nell’ambiente culturale in cui sono nati e cresciuti… quasi un destino ineluttabile. Io so che non basta. Quelle cause, quelle condizioni, sono dati reali, hanno avuto e hanno una rilevanza grande: ma non bastano a spiegare le scelte che ho fatto, la vita che ho deciso di vivere, le azioni che ho compiuto, il dolore che ho provocato… la morte – no: le morti – che mi sono dato credendo di conquistare una vita più vita. Le dannazioni che mi sono portato dentro per tanti anni…, fino a quel momento.

So questo come intima, dolorosa, finalmente chiara, consapevolezza di me. E ne ho le prove. Sono infatti il più grande di nove fratelli e sorelle, sono nato e cresciuto nella stessa loro famiglia, nello stesso loro paese, nell’i­dentica carenza di istruzione e cultura, nella medesima dignitosa povertà, con le medesime difficoltà di lavoro e di inserimento nella società: soltanto io ho fatto quello che ho fatto; soltanto io ho attraversato un trentennio di dissipazione della vita e a tratti d’inferno, per giungere infine alla mia porta stretta.

Tutto ciò che ho narrato in questo racconto della mia vita – e ho narrato senza nascondimenti – dovrebbe ser­vire, anche, a dare risposta a quella domanda: ma resto con la sensazione che quella domanda non ha risposta. Perché io? Forse soltanto perché mi fosse possibile giun­gere a questa porta?

Sono trascorsi molti altri anni da quell’isolamento. Ho tradotto Amleto in napoletano, ho recitato Re Clau­dio cercando di alleggerire e controllare le frustrazioni del mio animo. Ho continuato a dedicare al teatro gran parte del mio tempo, ho recitato De Filippo, Shakespeare, Dante, Giordano Bruno, sempre facendo dello studio del personaggio che di volta in volta ero chiamato a in­terpretare la leva per una analisi di me stesso. Solleci­tando i testi, o almeno la loro resa scenica, ho cercato in essi la misura della mia anima; nella ricerca necessaria a rendere le persone di un dramma ho spinto la rifles­sione sulla mia vita; nelle crisi, nelle passioni universali che l’opera teatrale propone ho scoperto la complessità dell’animo umano: anche del mio. Un mondo nuovo si è aperto davanti a me; ho arricchito i miei pensieri, la mia parola… ho instaurato con il pubblico un dialogo di sguardi, di comprensioni, forse di amicizia.

Ho imparato moltissime cose, e soprattutto ho impa­rato a sapere di non sapere… E che un’intera vita non ba­sta a sapere nemmeno la minima parte di ciò che vorrei.

Ma ho soprattutto imparato il valore della ricerca, dello studio, dell’anelito alla conoscenza, la gioia della conquista quotidiana anche di una sola briciola del sa­pere, specialmente nell’arte. Ho sperimentato quanto sia vero quel pensiero che il mio tutor letterario spesso ri­pete: non sembra più nemmeno mortale l’uomo che vive fra beni immortali.

Forse, mi interrogo con ansia, il mio carattere origi­nario non è cambiato; forse in me non è estinta quella forza oscura che mi portò alla violenza, quella tendenza all’egocentrismo, al bisogno di emergere ad ogni costo. Ma poi invece sento che tutto in realtà non è più come prima. Facendo Dante abbiamo appreso della caduta, della perdizione e del ritorno alla vita attraverso un viag­gio doloroso; e al pubblico – ma innanzitutto a noi stessi – dichiarammo l’intento di far conoscere, usando Dante, il nostro Purgatorio. Il mio viaggio, il mio purgatorio, è stato il carcere: ma non il carcere in quanto restrizione privazione e violenza, bensì, in questi funghi intermina­bili anni, il faticoso, a volte drammatico confronto con gli altri – detenuti, agenti, dirigenti, educatori, psicolo­ga, esterni – a cui nel carcere sono stato condotto e che mi ha imposto, anzi obbligato, ad arrivare a me stesso. Se non fosse avvenuto il confronto con queste persone che hanno altri modelli di vita, con le loro altre culture, oggi non potrei dire con convinzione: sì, io sono ciò che la vita mi ha fatto, col mio bene e con il mio male; sono quell’uomo che fu giovane operaio a Torino, che ha amato forse egoisticamente ma profondamente, che non ha potuto e saputo sottrarsi ai miti di una cultura bassa e subalterna, che s’è perso… e per questo ha molto sofferto. Sì, quello sono io: ma ora anche l’uomo che ha compiuto una revisione totale dei suoi valori, che ha ro­vesciato il suo universo intcriore e il suo modo di amare, che è pervenuto a una nuova concezione del suo essere nel mondo.

Dal luogo in cui sono e rimango, l’orizzonte fisico è sempre quello in cui mi perdo da innumerevoli anni: le chiome regali di qualche pino romano, un lembo di ciclo, una incerta linea di palazzine al di là di Rebibbia. Ma ben altro è ora il mio nuovo, ben diversamente illu­minato, orizzonte ideale e morale.

Il romanzo della mia vita termina qui: non la mia vita. Non la mia speranza.

Quella di tornare alla famiglia e alla società come una persona viva e utile, che può dare agli altri e a se stesso ancora qualcosa; come un uomo al quale, dopo trentaquattro anni, con civile revoca del giudizio, possa essere reso il diritto e il dovere di tornare a far parte del consorzio civile.

FINE

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