Come faremo a continuare a essere diversi da loro? Una vita sospesa tra l’amore verso la propria famiglia e il rifiuto per la scelta (di camorra) che ha fatto

Maria Rosa Nuvoletta: legami d’amore contro le leggi della camorra

Quanto male, sorella mia. Che freddo, che gelo

Che c’entriamo tu ed io con questa gente?

Che sangue è questo che ci scorre nelle vene?

Cosa ci facciamo noi qui?

Lancinanti domande che formano il cuore tragico, e purtroppo più che vero, del rapporto strettissimo, filiale, dei due fratelli protagonisti del bellissimo romanzo, in parte autobiografico, di Maria Rosa Nuvoletta, Legami d’amore, Fanucci, 2009.

Incastrati in vicende di camorra,  tra vendette e fughe, Barbara e Vito vivono una esistenza tragica, dove solo il loro amore resiste alla crudeltà di “questa gente”.  Insegnante per venticinque anni nelle scuole elementari, poi docente di Psicologia alle scuole superiore, Maria Rosa Nuvoletta ha provato sulla sua pelle la difficoltà di sottrarsi alla facile vita di molti congiunti vicini alle cosche. Questo è il suo primo romanzo, maturato, come racconta la stessa scrittrice, nelle aule del Suor Orsola Benincasa di Napoli, durante le esercitazioni di scrittura creativa dirette da Sergio Campailla, con Salvatore Martino e il sottoscritto. In particolare resta viva la riconoscenza per il poeta Salvatore Martino, che Maria Rosa segue a Roma molto spesso per le sue letture di poesia. Saluto entrambi con molto affetto. Ecco un altro brano della lettera di Vito (che si è sottratto alla catena di delitti) a Barbara che lo cerca senza sapere quello a cui è stato costretto ad assistere.

Rinnegare, restare, scappare, pregare, bestemmiare?

Come faccio a vivere con questa cosa dentro?

Come faccio a respirare a guardare il mare, a sentire gli odori senza avvertire il fetore, a mangiare senza provare disgusto, ad amare senza detestare, a parlare senza ammutolire , a camminare senza indugiare, a sorridere senza lasciar scorrere il pianto?

Come si riscatta tutto questo?

Di chi siamo figli, di cosa siamo fatti?

Come faremo a continuare a essere diversi da loro, portando lo stesso nome e lo stesso terribile destino? Come farò a non odiare me stesso per non avere il coraggio?

[…]

C’era un tempo in cui eravamo fieri di chiamarci Cortese perché quel nome firmava biancheria fatta a mano e pagava onestamente il nostro pane.

L’unica cosa che lega quel tempo a questo è il bene che ti voglio, un bene silenzioso, attento, discreto, che fa vicina la lontananza, che rende certi nell’indecisione, che sa senza parlare tanto.

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