Alessandro, caro amico viaggiatore e fotografo, ora lettore di Italiano a Florianopolis-Brasile, ma ha tanti bambini nelle Filipine!

Camiguin: Alessandro Mantovani nelle Filippine

“Ha più vulcani per metro quadro che ogni altra isola al mondo”, recita la Lonely Planet.

Guardandola da lontano, con l’imponenza dei suoi rilievi a forma di cono, Camiguin incute rispetto e – per chi ricorda la devastante eruzione nel 1951 del suo tuttora attivo Hibok-Hibok – misterioso timore.

Approssimatevi e, quando comincerete a distinguere i profili della lussureggiante vegetazione che la ricopre, vi sembrerà – interamente verde – un’isola vergine.

Dovete avvicinarvi molto prima di poter scorgere, qua e là, il profilo di qualche abitazione nascosta tra le fronde e qualche palafitta sospesa sulle mangrovie.

Ma una volta sbarcati – percorrendo la via che ne segue la costa  – quale sorpresa! – essa vi sembrerà un giardino.

Le nippa, umili abitazioni costruite con le foglie di una palma adatta allo scopo, sono una profusione  – soprattutto quelle delle strade che si inoltrano nell’interno – di colorate   piante tropicali (come la rossa Kilea, per lo più usata per le bordure, o le variegate specie di  Atai Atai, con cui gli indigeni gareggiano nell’inventare fantasiose composizioni cromatiche).

Sulla via, e tra le capanne, cani sonnacchiosi che non si scompongono al sopraggiungere dei pochi veicoli, piccoli gatti rinsecchiti, timidi maialini che fuggono a destra e sinistra, caprette che vi osservano con lieve preoccupazione, qualche raro vitellino, qualche cavallo, carabao (bufali) lenti e poderosi, galline coi loro pulcini.  E naturalmente, la passione nazionale, i galli da combattimento, che sfoggiano orgogliosi i propri vari e sgargianti piumaggi. Come ovunque in questa nazione, tanti bambini, di ogni età, che giocano con palle rattoppate, con camere d’aria consunte, che fanno il giro tondo.

E infatti, quante scuole! Una ogni chilometro forse. Veri giardini anch’esse, curati dagli alunni stessi, che provvedono anche – da noi nemmeno si pensa a questo tipo di educazione civica, sia mai che i nostri principini debbano fare cose “umilianti” – alla pulizia delle aule.

Al termine delle lezioni, le strade sono letteralmente invase da centinaia di scolari di età diverse, abbigliati con uniformi uguali (ma diverse a seconda della scuola di appartenenza); gli adolescenti cantano, si tengono per mano, si pavoneggiano. Giocano,  si rincorrono, gridano i più piccoli.

Alcuni salgono, stipandoli all’inverosimile, sui tricycle (motorini di bassa cilindrata trasformati in mini autobus), talvolta issandosi fino al tetto del precario mezzo, che arriva a trasportare anche più di dieci persone, o semplicemente camminano a lungo, uniti in gruppi che si diradano via via che uno dopo l’altro i componenti raggiungono casa.

In mezzo agli orti, irrigati da innumerevoli torrenti, ruscelli, cascate – ecco piccoli terrazzamenti allagati coltivati a riso, che si fanno più estesi nei rari e brevi terreni pianeggianti. Risaie queste ultime, conquistate alla nera sabbia vulcanica delle spiagge, dando luogo allo scenario – così tipico delle isole filippine –   di campi di riso che si gettano direttamente a mare, da cui li separano appena stretti filari di altissime palme da cocco, e la battigia.

E sulla spiaggia, naturalmente, le barche multicolori, le reti raccolte o distese, le palafitte dei pescatori. Tra le quasi sempre morbide ed accoglienti acque, gli umili si bagnano, apparentemente appagati, strappando sul far della sera, mentre il cielo del tramonto assume iridescenze da noi sconosciute, un momento di pace dalle fatiche e dalle incertezze del giorno.

E sulla sabbia, sempre bambini che scorrazzano allegri. Fra le capanne, alcuni, più piccoli, piangono, e la voce delle madri si leva a consolarli.

Intanto tornano ai loro diving resort le grandi bangka piene di bombole, erogatori e subacquei provenienti dal mondo intero: anche oggi, implacabili, hanno raggiunto le barriere coralline ormai pesantemente stressate dai tifoni sempre più violenti degli ultimi anni e soprattutto dalla pesca illegale.

Perché, a Camiguin, anche il mare è un giardino.

*  *  *

A Camiguin si respira l’atmosfera della provincia: appena lasciate la via costiera, che ne costituisce l’arteria principale (qui la chiamano pomposamente highway, anche se è stretta e caoticamente trafficata da ogni genere di veicoli e di animali), e vi inoltrate, anche di poco, nei barangay interni, o vi approssimate alle palafitte dei pescatori, preparatevi a scambiare, lungo il vostro cammino, saluti, complimenti, piccole conversazioni. Vi salutano lungo la strada, dalle finestre, dalle motorette di passaggio (stipate di gente), dai campi di riso. “Hi” o “Hello”, sono i saluti più gettonati, pronunciati ora in tono rispettoso, ora canzonatorio, ma sempre con l’accento così musicale della lingua visaya. E quasi sempre, con larghi sorrisi bianchi e luminosi.

Vi salutano i bambini, i più piccoli con gli occhi stupiti e curiosi, i più grandicelli accennando a qualche motto di spirito (“hey Joe”, è una delle impertinenze più in voga ovunque, in questo arcipelago, ricordo della colonizzazione americana). Vi salutano le donne, sedute in gruppi davanti alle case, curiose di sapere se siete sposati, se avete bambini, e la vostra età. Allontanandovi, le sentirete ridere, probabilmente per qualche facezia piccante, se non sguaiata. Al vostro passaggio, le domande dei maschi, riuniti a cerchio, in piccoli gruppi, all’ombra di chioschi predisposti allo scopo,  sono un po’ diverse:

. Where are you from?

– Italy

– Where is Italy, in Canada?

– No, in Europe

– Where is Europe, in USA?

E’ l’universo femminile, nelle Filippine, la parte socievole e ciarliera, laddove gli uomini sono più riservati, ma alla fine non meno chiacchieroni, curiosi e ridanciani: è ammirevole la grande predisposizione alla facezia e al riso di questo popolo, per il quale il sense of humor è socialmente quasi altrettanto importante del sense of honor (kahihiyan).

Da chissà dove provengono musichette allegre, o straziano i vostri orecchi i soliti stonatissimi cultori del karaoke, le infernali macchinette che sono, dopo i galli da combattimento, la grande mania delle Filippine, dove hanno raggiunto i luoghi più impervi.

Non bisogna lasciarsi ingannare: la vita di questa gente è dura, lo stesso nutrimento quotidiano  può essere un problema, la carenza di assistenza sanitaria è un’autentica piaga, l’usura intasa tutti i pori della società. Ma per lo straniero che passa, se non fosse per qualche dettaglio appena percepibile, o per qualche più lunga e approfondita conversazione, l’impressione è di una quieta e sorridente sonnolenza.

*  *  *

Sono arrivato a Camiguin la prima volta nel 2008, per un breve outlook dell’isola. Affittata una moto, la perlustrai alla giapponese, con la macchina fotografica in mano.

Vicino al porto di Benoni, dove la costa smette le risaie, la sabbia e le palme per lasciare il posto alle mangrovie, i pescatori hanno eretto un piccolo gruppo di palafitte, che ho ritrovato, anche stavolta, tali e quali.

In quella prima occasione, mentre, issata la moto sul cavalletto, tento di trovare alcune inquadrature decenti delle palafitte di nippa, vedo aprirsi la porta di una di esse, ed uscire sul ballatoio una donna anziana e canuta. Mi scorge e mi osserva, con uno strano sguardo sospeso attraverso spessi occhiali. Conscio della mia intrusione, decido di riporre la macchina fotografica, predisponendomi a risalire sulla moto per allontanarmi.

Ma la donna alza le braccia in segno di richiamo, e mi rivolge la parola in visaya.  Faccio segno di non capire. La vecchia, allora, chiama una giovane frattanto apparsa alla finestra della palafitta accanto, pregandola di tradurre in inglese.  Mam (mam significa signora), mi dice la giovane, vorrebbe che tu le facessi una foto (nessuno lì possedeva una macchina fotografica, e i cellulari con fotocamera digitale ancora non erano arrivati), e che poi gliela inviassi. Mam – continua, con un sorriso di scusa  – ha una figlia, che vive lontano, una figlia che non vede da molti anni.

Mam would send the picture to her daughter  – pausa – before dying.

Il sorriso della giovane si spegne per un attimo, gli occhi della vecchia mi guardano interrogando intensamente.

– Ok, of course, I take some pics, and I’ll send them to mam.

Scatto, e mostro alla vecchia, sul display della digitale, i risultati. La donna sembra amareggiata. E’ il mio turno di interrogare con lo sguardo. Mam non si piace  – spiega la nostra interprete – : si vede troppo vecchia, da moltissimi anni non si vedeva in foto, e non vorrebbe che la figlia la vedesse così. Gli occhi della vecchia sono umidi, adesso.

Sia quel che sia, mi faccio scrivere l’indirizzo e prometto, con la più solida buona fede del mondo, di spedire le foto appena possibile.

Mentivo a me stesso: i bigliettini, per tutta la vita, li ho sempre persi. Così fu anche in quell’occasione. E le foto – maledicendo un milione di volte la mia imperdonabile sbadataggine – non le ho mai spedite.

Ma ecco, sono tornato a Camiguin. Eccomi ancora in moto, sulla highway vicino a Benoni. Sono passati anni, ma spero di poter riparare al misfatto.

Ecco le palafitte, sempre le stesse, nulla è cambiato. Scendo di nuovo dalla moto. Con la camera, sembra ieri.

Hey mam, where is mam?

Cioè, qualcosa è cambiato. La mam non c’è più, se n’è andata un giorno verso l’ospedale di Bohol, un’isola maggiore posta tra Camiguin e Cebu, e non è più ritornata …

Non sanno dirmi della figlia …

Alessandro Mantovani

Febbraio 2013

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