Corpocentrismo di Testori
di Giuseppe Frangi da Attorno a questo mio corpo, Hacca editore, a cura di Pierangeli, Papi, Pacelli

Testori ventennale

Cleopatràs e il primo dei Tre Lai. “Lai” sta per lamenti,

e si tratta di un’opera che Testori scrisse nell’ultimo

anno di vita (1993) e quindi pubblicata postuma (1994).

Un’opera dall’architettura elementare: Inferno, Purgatorio

e Paradiso rappresentati attraverso tre grandi figure

femminili che si raccontano in altrettanti monologhi.

Cleopatra, appunto, Erodiade (Erodias) e Maria (Mater

Strangoscias). Cleopatra e regina d’Egitto, ma viene

risucchiata completamente nella topografia testoriana,

imperniata geograficamente e, ancor piu, linguisticamente,

sulla cittadina di Asso, luogo madre e luogo padre

dello scrittore (che aveva i genitori nati ambedue in

Valassina, in quel triangolo di terra che si allunga tra

i due rami del lago di Como). Asso e “As” nel dialetto

d’origine. E il luogo si fissa nel destino dei personaggi

tanto da inciderne anche il nome: “Cleopatras”, appunto.

Durante uno dei passaggi piu belli del monologo la

regina d’Egitto e della Valassina accompagna, o meglio

trascina, i lettori-spettatori in una cavalcata attraverso

i luoghi della biografia che Testori le ha imposto. La cavalcata culmina nell’approdo a Lasnigo, piccolo paese

della Valassina, dov’era nata la mamma dello scrittore.

A questo punto nel testo si consuma un fisicissimo

corto circuito, per cui i luoghi assumono la carnalita

di un corpo. ≪Mia civis, te, carnascial substanzia…

meo cordon, meo coglion, meo umbelico, tetta de me

e intriga latteria […]. Lasnigo desventrata, te vedo, te

vedo ammo, te tocco, ecco, te tangio…≫. E ancora:

≪eccola qui, eccola, anzo, qua, talmente qua che, ecco,

la se tocca, che se pode, ecco, poggiarci su anca la

bocca…≫. Nel corso della piu recente messa in scena di

Cleopatràs regista e attrice (Luigi Dall’Aglio e Arianna

Scommegna), per reggere anche con i gesti alla forza del

testo, hanno fatto ricorso a un escamotage semplice ma

estremamente consentaneo al testo: Cleopatras vestita

di bianco disegna sulla propria tunica con colori violentissimi

una specie di carta geografica in cui a luogo

si aggiunge luogo, scendendo via via. Quando approda

al luogo topico, Lasnigo, la mappa arriva a coincidere

con il grembo e la vagina. Perche Lasnigo e il punto in

cui, recita Cleopatras, “el me de me sorti quella funestissima

mattina!”. Luogo geografico e luogo del corpo

arrivano a coincidere, a sovrapporsi semanticamente.

Testori e davvero uno scrittore “corpocentrico”, se

pensiamo che un testo come quello che abbiamo brevemente

citato in queste righe venne concepito e scritto

nella consapevolezza di essere arrivato al capolinea, cioè

in una situazione in cui generalmente i “cantieri creativi”

di ogni scrittore o artista si orientano più su esperienze di sublimazione o comunque di presa di distanza dalla materialità dell’esistenza. Per Testori questo non accadde:

anzi sulla scrivania della camera d’ospedale fini con lo

scrivere un testo in cui l’esperienza della parola trova

una fisicità che non risente in nulla del declino “fisico”

che lo scrittore stava drammaticamente vivendo. Verrebbe

da dire che la sua vena creativa godeva in quel

momento di uno stato di grazia e di energia come forse

non gli era mai accaduto in vita. Non si respira mai la

sensazione di un testo “ultimo”.

I Tre Lai, forse il più bel libro che Testori ci ha

lasciato, sono tutto meno che un testamento letterario.

E quindi sono il documento più affidabile di quello che

e il centro della sua esperienza poetica: il rapporto con

il mistero e il dramma del corpo.

E un punto focale che tiene insieme tutti i “vari”

Testori: il romanziere, il critico, il drammaturgo, persino

il giornalista-polemista. E un punto d’attrazione

che genera innamoramenti a ripetizione, come quelli

attraverso i quali guarda, con un’imparzialita cosi potente

da imporsi alla fine come parametro oggettivo e

accettato, alle esperienze dei grandi lombardi che studio

da critico d’arte: Gaudenzio Ferrari, Tanzio da Varallo

e Romanino su tutti. Basta rileggere le pagine con cui

arriva a cogliere la coincidenza che a Gaudenzio riesce

di realizzare tra la pittura e la carne; oppure quelle

in cui sorprende la materia di Tanzio farsi essa stessa

tendine e muscolo; o quella di Romanino impregnarsi

di odori, umori, sudori e aliti. Questo “corpocentrismo” porta Testori ad aprire

una grande questione a livello espressivo: la questione

della lingua. La lingua che ha a disposizione, l’italiano

consumato e abusato, l’italiano svuotato da quella sacralita

e da quella forza che il confronto con il latino

(sinche il latino e restato la lingua della messa) gli

garantiva; l’italiano piallato dall’estinzione dei dialetti,

che ne erano un nutrimento endogeno e non accademico;

ebbene, quell’italiano e lingua che non riesce piu

a seguire la realta, ad esprimerla, a contenerla. E una

lingua che tutt’al piu puo raccontare l’esperienza del

corpo attraverso tecnicismi; ma e una lingua elusiva e

afasica quando si tratta di stare dietro all’attrattivita della

vita e dei corpi che la popolano. Una lingua spianata

da quell’omologazione che aveva cosi drammaticamente

ferito a livello umano e poetico anche Pier Paolo Pasolini.

E cosi che Testori, con l’Ambleto, nel 1972 riapre

il cantiere della lingua in senso inverso a come aveva

fatto il suo per altro amatissimo Manzoni. Anziche

risciacquarla, la reimmerge nell’anarchia dei dialetti, dei

francesismi, dei latinismi. La riaccende con dinamiche

neobarbariche proprio per dotarsi di uno strumento che

reggesse alla forza fisica delle figure a cui doveva fornire

parole. E una lingua senza regole, ma paradossalmente

comprensibile, tanto sa farsi cosa. Una lingua fatta per

essere detta e non per restare solo sulla carta. Scritta

per diventare parola pronunciata. Quindi per essere essa

stessa non atto grafico o mentale ma un atto fisico,

corporale. Una lingua che trova il suo completamento. e la sua apoteosi sulla scena di un teatro, sul corpo di

un attore. Una lingua che a volte si fa con il generarsi

stesso del corpo, come accade nel sillabare smozzicato

da cui prende avvio Factum est (1981). O una lingua

che muore, si spacca, quasi stramazza, con il morire

stesso di chi la pronuncia, come accade nel drammatico

singhiozzo di In Exitu (1988).

In una delle rare fuoriuscite da questo suo territorio

linguistico, in occasione di un testo dedicato non a caso

a Manzoni, I Promessi Sposi alla Prova (1984), la lingua

italiana e continuamente sfidata a rendere la tensione

umana e poetica della storia e dei suoi protagonisti. E

quando il Maestro che guida gli attori in questa sfida

(si tratta di mettere in scena la vicenda dei Promessi

Sposi) deve spiegare il senso del loro essere sulla scena,

evoca la necessita di una parola che s’incarni. E per

stringere di piu l’idea, per liberarla dal rischio sempre

presente di un ritualismo, Testori mette in bocca al

Maestro uno straordinario neologismo: c’e bisogno di

una parola che “s’inossa”.

La lingua diventa una sorta di baluardo. Di arma

che Testori usa per la propria battaglia. Che e quella

di restituire la parola alla sua natura: diventare “carne”.

Battaglia che va ben oltre lui: contro lo spossessamento

del corpo che la scienza opera; contro il processo di

progressiva artificialità che contrabbanda benessere ma

elimina la liberta; contro la cancellazione faustiana di

quella condizione di creaturalità e di dipendenza che

e alla radice della vita e della sua bellezza.

Per quanto Testori sia apocalittico nei contenuti,

in realta il farsi stesso della lingua sulla pagina e sulla

scena, il suo “esserci”, diventa un segno di vittoria.

Corpocentrismo di Testori

Perche se lingua c’e, e presente, sussulta, vuol dire che

anche il corpo che la porta, che la pronuncia e incarna,

ha vinto la sua battaglia. Che l’ha vinta magari nella

disfatta, come accade a Cleopatras, cui tocca, nell’architettura

disegnata da Testori per i Tre Lai, la destinazione

all’Inferno. Tant’e vero che proprio prima di

accomiatarsi morendo e di lasciare il posto a Erodias,

Cleopatras si trova sulla bocca, nell’imprecazione finale,

uno dei piu bei versi scritti da Testori stesso: ≪E che da

Crez vegna gio i scurbat, i mustar e de l’Inferna tutta

la gran gent, no ’sto fil d’aria che l’e gnanca vent…≫

Crez (Crezzo) e altro toponimo della Valassina

testoriana. E il filo d’aria che non ha neanche la forza

di farsi vento e un altro sussulto di immensa nostalgia

e di innamoramento verso il mondo e il corpo da cui

Cleopatras-Testori si deve separare.
(Giuseppe Frangi da Attorno a questo mio corpo, Hacca editore, a cura di Pierangeli, Papi, Pacelli

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