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La presa in carica dello sguardo altrui: Tiziana Rapone intervista Eraldo Affinati

Quando lavoro con i ragazzi, sento che si può realizzare l’unica vera rivoluzione tra tutte quelle fallite nel sangue del novecento, quello che io chiamo «la presa in carico dello sguardo altrui», perché se togli la scena dialettica dall’educazione fai un errore.

Il ragazzo che cresce ha bisogno di un nemico con cui confrontarsi. Se gli togli il nemico lo spiazzi, gli togli l’antitesi, il confronto, l’occasione di crescita. Lo fai nascere nel vuoto perché lo lasci senza limiti. Il concetto di Gerarchia viene considerato di destra, in realtà non è né di destra né di sinistra, è un concetto conoscitivo indispensabile: se non impari a distinguere, a stabilire gerarchie, rischi di non avere nessun sentiero conoscitivo davanti a te, rischi di essere invaso dalla marea. Da otto anni che sono nella Città dei ragazzi non ho mai visto un episodio d’intolleranza religiosa, ci sono musulmani, cristiani, italiani… Allora viene da chiedersi: ma perché gli stati tra di loro si fanno la guerra e questi ragazzi che magari litigano nei loro paesi qua si guardano negli occhi e si trattano come esseri umani? C’è una misura universale nei rapporti umani che va oltre tutte le diversità di tipo nazionale, religioso o politico. Alla città dei ragazzi le identità sono fortissime, nessuno rinuncia alla propria identità e proprio per questo possono parlare fra di loro. Bisogna accettare l’identità altrui nel confronto paritario, è su questo che si gioca secondo me la scommessa della nostra epoca.

Io cerco un fondamento, in questo sono forse antimoderno. La modernità ci ha illusi di poter fare a meno dei fondamenti, invece io credo alle radici e ai fondamenti, credo che ognuno di noi debba conoscere bene la sua posizione di partenza e quindi che ognuno di noi debba essere sicuro della propria identità. Questo senza chiudersi, confrontandosi sempre con gli altri. Se evitiamo il confronto, rischiamo di diventare razzisti. Alla Città dei ragazzi vedi giovani afgani, musulmani che parlano con ragazzi ortodossi, moldavi o con animisti africani e che danno la loro disponibilità a fare del volontariato come ho fatto io. Ho creato a Roma, nella chiesa di San Saba, uno spazio pomeridiano dove insegnare ai ragazzi stranieri. Questa scuola particolare si chiama Penny Wirton. Andiamo a prendere i ragazzi al centro di prima accoglienza poco distante e li portiamo direttamente nei locali che la chiesa ci ha messo a disposizione, dove insegnamo italiano e storia a vari livelli. Vorrei creare altri spazi di questo tipo e quindi sto cercando un appoggio sia a livello di locali che di disponibilità di persone. Sento che c’è molta voglia di fare questo genere di lavori. L’immagine che noi abbiamo oggi della scuola è molto lontana dalla realtà. Esiste una scuola sana, vera che non compare né in televisione né sui giornali.

D: Avvicinandosi spesso agli aspetti oscuri, pericolosi della vita e dell’esistenza umana, non teme di essere attratto dal male?

R: C’è nella natura umana, qualcosa che in certe circostanze storiche potrebbe venire fuori, l’elemento che io ho chiamato del cervello rettile. Questo aspetto m’interessa molto, voglio conoscerlo per controllarlo, capirlo, incanalarlo. Ma io mi pongo sempre in una prospettiva conoscitiva. L’uomo è un impasto di bene e di male e io voglio scavare in questo impasto. Voglio andare al di là delle facili spiegazioni. Quando mi sono messo di fronte ai temi tragici dello sterminio novecentesco ero più interessato ai carnefici che alle vittime. Tanti studi ci hanno dimostrato che non erano dei mostri, ma persone ordinarie che hanno aperto e chiuso una parentesi nella loro vita.
In me c’è la volontà di conoscere. Per conoscere bisogna andare a toccare con mano, non bisogna rimuovere, occultare, dire non mi riguarda. Io non sono interessato al male, ma all’individuo specifico che compie il male. Mi interessano gli individui, non le categorie. E capire in che senso io posso essere fuori dal male. Nelle mie opere c’è sempre un’evoluzione, una soluzione e tanta speranza.

D: Allora anche In Bandiera bianca (Milano, Mondadori, 1997) il male vive nella normalità?

R: Il mio lavoro di insegnante mi porta spesso a cercare un appiglio, un ancora.
L’accettazione del proprio limite è una tappa dell’evoluzione spirituale, della maturazione. La libertà non è mai assoluta, ma sempre relativa, va conquistata ogni giorno, col frutto del proprio lavoro, non esiste una libertà categoriale, astratta.

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