Nato ad Alessandria, nel 1931, Ungaretti torna in quei luoghi nativi nel 1931 con il reportage Il deserto e dopo. Insistendo soprattutto sul rapporto degli italiani emigrati (come suo padre, lavoratore per il Canale di Suez) che hanno contribuito a costruire l’Egitto moderno. In questi giorni di turbolenza politica ricordiamo questa vicinanza e i tanti egiziani che ora vivono nel nostro paese

L’Egitto di Ungaretti

In mezzo a quel groviglio di popoli che vanno dall’Asia centrale all’Atlantico sahariano, L’Egitto presenta una storia, la più lunga che si conosca di popolo fermo. Non è che un’oasi. Un’oasi di grande ubertà con quindici milioni di anime: ma non ampia su una lunghezza di più di mille chilometri, il suo territorio abitato e coltivabile – due esili linee- ha press’a poco la superficie del Belgio. Kemit, il paese del suolo nero, lo chiamavano gli antichi.
E’ il dono del Nilo il quale, in quell’ultimo tratto di percorso, tra l’ombra grassa delle sue palpebre, fa all’amatore di stilizzazioni, sopra il piatto del deserto, l’effetto che lo stelo dell’azzurro loto d’Iside dirami e sveli, reggendo il Delta, il fine disegno delle verne del proprio calice spettrale.

IN MEMORIA.
Locvizza il 30 settembre 1916.
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse

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