Né propie forze ho, c’al bisogno sièno
per cangiar vita, amor, costume o sorte,
senza le tuo divine e chiare scorte,
d’ogni fallace corso guida e freno.

Maria Francesca Papi: il tema dell’incapacità dell’io di fronte all’offerta di grazia e bellezza ricorre in Michelangelo

Il madrigale 156, anch’esso probabilmente per la Colonna, è dominato dall’altezza della donna (alta dïadema, beltà superna, rara altezza, alto stato): una superiorità che il poeta desidera raggiungere ma anche possedere e che suscita l’immagine della salita sulla strada ripida e lunga. Mentre Michelangelo dice ancor più chiaramente che in 166 o 154 la necessità dell’intervento della donna per riuscire nel cammino di ascesi spirituale, sottolineando l’insufficienza del proprio valore, esprime l’inevitabile speranza che sia la donna ad andargli incontro, violando quell’altezza sovraumana e raggiungendolo là dove lui rallenta, a mezza via.

Questo dell’incapacità e insufficienza dell’io di fronte all’offerta di una grazia e bellezza tanto alta è un tema che ricorre in Michelangelo e che, ad esempio in 149, sempre all’interno dell’economia ascensionale, non si sviluppa semplicemente come lamento petrarchesco, ma piuttosto come una drammatica rivendicazione di sé che pare quasi accusare la donna del suo eccessivo bene piuttosto che il proprio limite. Ancora un segno di quell’unità tanto cara al poeta.
In 149 l’amare basso di 156 trascorre nell’incomunicabilità tra un’altezza che è superchia, eccessiva, e un ingegno, un’arte, un occhio, infine un sé, che rimangono qui, sulla terra.

A l’alta tuo lucente dïadema
per la strada erta e lunga,
non è, donna, chi giunga,
s’umiltà non v’aggiungi e cortesia:
il montar cresce, e ‘l mie valore scema,
e la lena mi manca a mezza via.
Che tuo beltà pur sia
superna, al cor par che diletto renda,
che d’ogni rara altezza è ghiotto e vago:
po’ per gioir della tuo leggiadria
bramo pur che discenda
là dov’aggiungo. E ‘n tal pensier m’appago,
se ‘l tuo sdegno presago,
per basso amare e alto odiar tuo stato,
a te stessa perdona il mie peccato.

Non posso non mancar d’ingegno e d’arte
a chi mi to’ la vita
con tal superchia aita,
che d’assai men mercé più se ne prende.
D’allor l’alma mie parte
com’occhio offeso da chi troppo splende,
e sopra me trascende
a l’impossibil mie; per farmi pari
al minor don di donna alta e serena,
seco non m’alza; e qui convien ch’impari
che quel ch’i’ posso ingrato a lei mi mena.
Questa, di grazie piena,
n’abonda e ‘nfiamma altrui d’un certo foco,
che ‘l troppo con men caldo arde che ‘l poco.

In 258, testo tardo, il poeta rinuncia al cammino, erto come in 156, verso la bellezza divina testimoniata dalla donna, per rimanere con la bellezza di cui può fare diretta esperienza e che più lo colpisce come artista (il destinato parto). La vita stessa è sintetizzata nel viaggio dell’anima, un pellegrinaggio lontano dal cielo, e proprio nel segno della lontananza, che dall’orizzontalità del sentiero si dichiara nella verticalità dell’impossibile innalzarsi dei desideri al v. 12, si esprime la solitudine dell’occhio senza grazia e mercede.

Quantunche sie che la beltà divina
qui manifesti il tuo bel volto umano,
donna, il piacer lontano
m’è corto sì, che del tuo non mi parto,
c’a l’alma pellegrina
gli è duro ogni altro sentiero erto o arto.
Ond’ il tempo comparto:
per gli occhi il giorno e per la notte il core,
senza intervallo alcun c’al cielo aspiri.
Sì ‘l destinato parto
mi ferm’al tuo splendore,
c’alzar non lassa i mie ardenti desiri,
s’altro non è che tiri
la mente al ciel per grazia o per mercede:
tardi ama il cor quel che l’occhio non vede.

288 e 293, scritti nell’ultima vecchiaia, portano il segno dell’intensa ispirazione religiosa che caratterizza le ultime composizioni di Michelangelo. Destinatario delle liriche è ormai il Signore e il cammino dell’anima è ora, più espressamente, quello della fede e della salvezza. Torna, come esplicita preghiera, il desiderio che si dimezzi l’erta via del pellegrinaggio terreno e che anzi, per ogni passo di questo ritorno, si faccia avanti l’aiuto misericordioso di Dio.

Le favole del mondo m’hanno tolto
il tempo dato a contemplare Iddio,
né sol le grazie suo poste in oblio,
ma con lor, più che senza, a peccar volto.
Quel c’altri saggio, me fa cieco e stolto
e tardi a riconoscer l’error mio;
manca la speme, e pur cresce il desio
che da te sia dal propio amor disciolto.
Ammezzami la strada c’al ciel sale,
Signor mie caro, e a quel mezzo solo
salir m’è di bisogno la tuo ‘ita.
Mettimi in odio quante ‘l mondo vale
e quante suo bellezze onoro e colo,
c’anzi morte caparri eterna vita.
Carico d’anni e di peccati pieno
e col trist’uso radicato e forte,
vicin mi veggio a l’una e l’altra morte,
e parte ‘l cor nutrisco di veleno.
Né propie forze ho, c’al bisogno sièno
per cangiar vita, amor, costume o sorte,
senza le tuo divine e chiare scorte,
d’ogni fallace corso guida e freno.
Signor mie car, non basta che m’invogli
c’aspiri al ciel sol perché l’alma sia,
non come prima, di nulla, creata.
Anzi che del mortal la privi e spogli,
prego m’ammezzi l’alta e erta via,
e fie più chiara e certa la tornata

(Maria Francesca Papi, da Il viaggio nei classici italiani, Le Monnier, 2010) .

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