Giornata della Memoria: studentessa di Scienze del turismo, Martina Onorato racconta il suo viaggio ad Auschwitz pochi giorni prima di compiere diciotto anni.

Martina Onorato: quel viaggio fatto per me

Non solo freddo ad Auschwitz

Non è solo freddo quello che si sente ad Auschwitz. Non è solo il vento, l’umidità, non sono i rami secchi degli alberi né il ferro battuto dei cancelli. Il freddo che si sente ad Auschwitz lo avverti dal treno, dall’aeroporto, da chilometri di distanza. Ti avvolge le ossa, ti stringe le tempie, ti arriva nell’anima.

Un viaggio ad Auschwitz si può fare solo a diciotto anni, quando ancora non percepisci la discrepanza tra quello che sei e quello che credi di essere; quando quello che vedi, le persone che incontri, le sensazioni che provi possono aiutarti a crescere come una persona migliore.
Ho compiuto il viaggio verso Auschwitz nel mese di novembre, due giorni dopo aver festeggiato i miei diciotto anni, insieme ad altri trecento coetanei di provenienza ed etnie diverse. Un premio da parte del comune di Roma che scatenò subito l’ironia dei miei compagni: “ Se per la tua media cosi alta ti regalano un viaggio in un campo di concentramento, a noi cosa dovrebbero mai regalare?” In realtà la ricchezza di quel premio la si scopre in seguito, forse, se possibile, anni dopo. Questo rende unico un viaggio di questo tipo: l’inconsapevolezza con la quale vivi l’esperienza, come un bambino che impara a leggere senza pensare all’importanza della sua conquista.
Poche centinaia di metri separano l’area riservata ai pullman dall’entrata del campo, accessibile solo a piedi, da percorrere privi di riparo dalle intemperie, così come dovette essere per loro, i prigionieri di quella assurda follia umana. Molti affermano che neanche in primavera il campo riesca a donare più di qualche sfumatura di verde, come se la natura stessa si rifiutasse di far credere che l’orrore sia stato superato. Il celebre ingresso del campo svetta verso il cielo sempre plumbeo e ricorda ai visitatori il grande inganno, “Arbeit Macht Frei”, l’accostamento della parola libertà in un luogo dove gli esseri umani perdevano ogni dignità, ogni diritto, ogni caratteristica del proprio essere, a partire dal proprio nome. Solo i più attenti notano la lettera “B” capovolta, unico possibile gesto di rivolta da parte del fabbro ebreo obbligato a realizzarla.
Varcare l’ingresso acutizza i sensi: la vista ti fa scorgere gli angoli più nascosti, l’udito ti fa ascoltare il grido di dolore di quel silenzio; con le mani vorresti toccare ogni cosa, per capire di più, per avere tutte le risposte di cui hai bisogno. In bocca hai il sapore della sconfitta, inevitabile davanti alla consapevolezza del fallimento dell’Uomo.
Dentro il campo non sono necessarie molte parole ma in quei giorni ho avuto la fortuna di poter ascoltare quelle giuste. La verità, raccontata da chi l’ha vissuta, sopportata e subita, il racconto di un viaggio doloroso fatto di ricordi dolorosi, ma alleviati quando condivisi. Capire che i sopravvissuti sono tutti accomunati dallo stesso pensiero: essere in vita per poter raccontare, per accertarsi che mai più il mondo debba conoscere simili atrocità.
Attraverso ciò che resta delle camere a gas, dei blocchi (unità abitative), attraverso le stanze della zona che accoglie il museo, le tonnellate di valigie, di bambole, di effetti personali, si compie quasi una discesa negli inferi danteschi, per risalire verso la luce solo grazie alle loro parole, piene di speranza per un futuro che, comunque, vivranno solo in parte.

Il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau fu uno dei principali in Polonia. Qui, nei suoi cinque anni di attività un milione e centomila persone trovarono la morte. Pochi furono trovati ancora in vita quando, nel gennaio del 1945 il campo fu liberato dalle truppe sovietiche.
Cinque di loro, nonostante l’orrore subìto hanno, ogni anno, la forza di tornare in quei luoghi, come guide e come portatori di un messaggio che è un inno alla vita. Ri-compiono il viaggio della loro vita, con le stesse angosce e con i ricordi vivi di coloro che, invece, non hanno fatto ritorno.
Il mio viaggio in Polonia si è concluso in tre giorni ma, convinta della necessità di sensibilizzare il più possibile le nuove generazioni, ho stretto un bel legame con uno dei miei speciali accompagnatori. Ogni anno, infatti, Sami Modiano visita la mia vecchia scuola e racconta in prima persona la sua preziosa esperienza a tutti gli alunni. Almeno fino a quando Sami e gli altri saranno in vita, niente andrà perduto o dimenticato.
Le anime rimaste ad Auschwitz si possono contare, sono in ogni ciottolo, in ogni crepa, in ogni ingranaggio di quei binari morti. In quei luoghi si assiste ad uno spettacolo che va oltre ogni limite: il cambiamento. Perché una volta entrati nel campo, quando si esce non si è più gli stessi.
Devo molto al freddo di Auschwitz , a quel viaggio che ho fatto verso di me.

Martina Onorato

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