L’ultimo spettacolo teatrale visto insieme a Rocco, il 3 marzo, è stato La supplente di Giuseppe Manfridi, testo molto amato da entrambi. Anche per lui era la seconda o terza volta, ma era una occasione speciale: la recita avveniva veramente in un’aula, anche se non scolastica, ma universitaria. Rocco, come sempre, con l’immancabile amico Mario, era in ultima fila, accanto alla finestra. E proprio da una finestra, con il salto nel buio, o nella luce, quasi annientata dalla sensibilità della poesia, la protagonista insegnante precaria e poetessa, si getta a cercare gli dei, tra le betulle. Che dono grande il tuo sguardo, il tuo sorriso, il fatto evidente, tra i tuoi, che l’ultima forma può non essere la morte, la disperazione… ma il compimento.

“Vasi sacri sono i poeti, anfore / celesti, ove il vino della vita si conserva”

«Son fioche più dell’ombre le betulle / Le candide betulle che disquagliano / il cuore tra la noia e lo spavento / dall’alba su mattoni di palude […] Le betulle hanno molto degli Dei / se gli Dei son l’immagine che sfugge / al poco che si vede. In esse è chiaro: / di un’anima la forma è il suo morire». (sono versi del caro amico Giuseppe Manfridi, messi nel fondo di una dei suoi testi teatrali più belli, La supplente)

Holderlin. L’avete studiato Holderlin?… (Un tempo, quasi a prenderli in giro) Scrittore. Scriveva. Di quelli, avete presente?, penna e calamaio… beh, è finito matto. Sì è chiuso in una torre, ha frantumato la chiave con un colpo di pietra e ha composto le sue liriche più belle. (A imbeccare) Dunque, più…? Dunque, più…? – (Marcando) Vere. Più vere. Da matto. Da autentico matto. Come un matto shakespeariano. E tutti a dire: povero Holderlin, povero Holderlin!… Ancora ci si interroga se si fosse rinchiuso perché diventato matto o se fosse diventato matto perché rinchiuso. Prediligo l’ipotesi che fosse un sano attratto dalla pazzia. Dunque, più matto da sano che da matto. Cioè, ancora più matto prima che diventasse matto. Matto sul serio. Vi prego, non fatevi sentire che ciancicate gomme! A mani giunte ve lo chiedo. – No, no, per carità… non ce l’ho con nessuno, ve lo dico così, preventivamente. Il cicche e ciacche è una cosa, proprio, che mi fa uscire di testa, e non essendo Holderlin, io da matta non è che renda molto. (Atteggiando un sorriso) Per cui, non vi conviene. Scusatemi, vi ringrazio. (Una pausa, per tornare ad altro) Già, Holderlin… “Vasi sacri sono i poeti, anfore / celesti, ove il vino della vita si conserva”. Tradotta io. ‘Anfore celesti’ è un passaggio che ho aggiunto per sfizio, non c’era. Che in italiano mi serviva ‘anfore’ per avere una sdrucciola a fine verso. “Ma lo spirto fulmineo di questo giovinetto / schiantare saprà il vaso che voglia contenerlo”. (Una pausa. Come per lasciare il tempo che depositi quanto detto. Quindi, a chiarire) La voglia di vivere che strazia la poesia, questo significa.

Qualche volta mi piacerebbe stare
nel bianco del margine
oltre la parola scritta,
nel silenzio dell’invisibile
tra pause di boschi incantati
su tramonti o albe di velluto
in muschi di foglie
nel vento leggero
che apre fessure
accarezza gli istanti.
E nello stupore
essere solo sguardo
senza nulla in mano
aprire la chiave giusta
del Mistero di questo universo.

Rocco Auciello
(da “Angelo. Poesie 1992-1995″)

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