Dalla tesi di Giuseppe Gambacorta, laureato a luglio nel carcere di Rebibbia. Vedete l’intervista dopo la tesi su you tube. Basta cercare tesi di laurea a Rebibbia, sia il servizio di TG3 regione che di Unomattinna, con la bella intervista al Garante dei detenuti

Pavese in bianco e nero

Ho trovato interessante soffermarmi su quelle che potevano essere le motivazioni adeguate per poter rimettere ordine ed equilibrio in quel caos che era la esistenza dello scrittore.
Intanto ritengo che per poterlo fare è opportuno chiarire dei concetti e, soprattutto, distinguere la libertà genericamente intesa (soggettiva e relativa) dalla libertà interiore che ritengo essere quella assoluta.
Pertanto, possiamo affermare senza tema di smentita che “un uomo idealmente libero è libero anche in prigione”, differentemente un uomo prigioniero della sua condizione mentale che rimane prigioniero anche nella libertà. Perché la libertà non è una condizione, ma uno stato dell’essere.

Pavese, a mio avviso, non si sentiva assolutamente libero, non si è mai sentito tale. C’è però una libertà, che ti porti dentro, su cui vigila la tua coscienza: quella che consente di essere noi stessi, di difendere e praticare quel codice etico, quel decalogo civile e morale, che nessuno insidierà, perché appartiene a noi stessi. Quella libertà che ci rende tolleranti di fronte a chiunque non la pensi come noi, a patto che non si sia obbligati a pensarla come lui.
Quella libertà nemica della demagogia, che impone promesse irrealizzabili, di prendere impegni che non sarai in grado di mantenere.
E difficile essere liberi, e liberali verso gli altri se non lo sei davvero nel campo etico. Le contraffazioni non hanno corso.
L’uomo ideale è colui che sa dominare gli istinti, che sa reagire ai colpi della sorte sfruttandoli a proprio vantaggio o accettandoli con ragionevole sopportazione.
Dentro questi luoghi di privazione della libertà fisica, purtroppo, la solitudine è alla base di tutto. Si deve fare il massimo per evadere con la mente e non lasciarsi irretire dalla nostalgia, “guai se dovesse accadere!” Si vive stretti su tutto, quando non c’è nulla da fare, non rimane altro che guardare il soffitto.
Il carcere produce solo ozio, malattia, si sentono solo rumori di cancelli e i passi delle guardie che si assicurano che le celle siano ben chiuse. Ognuno con la propria croce, gli stessi volti, tristi e solitari, dove si scorge appena un sorriso a dir poco ironico e nel cuore la sola amarezza di un percorso umile e fantasioso.
Tuttavia, nonostante l’angoscia e lo sgomento, considero meravigliosa la vita; e credo che tale sentimento produca tanta forza interiore, più di quanta si crede di averne.
Il cuore pulsa forte nel nostro petto, carico di emozioni e di sensazioni, nel silenzio, anche gli altri lo ascoltano, lo comprendono; compagni di viaggio delle stesse avventure e disavventure.

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