Silvano Ceccherini, La traduzione, Feltrinelli, 1963, ristampato da Elliot, vedi post precedente. Nel viaggio da Civitavecchia al carcere di Saluzzo una serie di incontri toccanti, strambi, con gente violenta, sempre umanissimi. Quali sono i confini tra il fascino del male, la noiosa indifferenza del perbenismo, i doveri della legge? Ogni domanda di questo tipo è retorica, sembra dire Ceccherini, se non si conosce questa realtà, almeno nello spazio di un libro, un buon libro, capace di dilatarsi e lasciare tracce.

Nel silenzio ritrovò la sua voce…

…. aveva tagliato a guisa di pagine di libro i fogli di carta igienica. Era una carta giallina, ruvida.


disegno di FRANCESCO CHIACCHIO dedicato a Silvano Ceccherini

Col lapis doveva premere forte. Scriveva con lentezza, scegliendo con meticolosa cura le parole, ma raramente consultando il dizionario. Come tutti gli scrittori che hanno un contenuto da comunicare, egli non si lasciava distrarre dalla belluria di parole. Pertanto non aveva preoccupazioni di “stile”, ma si preoccupava di continuo, enormemente, di essere sincero, di non accontentarsi mai di una espressione approssimativa.
Scriveva ancora quando spuntò l’alba.

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