In limine «nel foco ov’io… mi struggo e ardo». Il Pollock di Giuseppe Manfridi

Giuseppe Manfridi al Teatro dell’Angelo di Roma lunedì 2 febbraio alle 21:00 con “Conversazione sul luogo dell’incidente – Trasfigurazione cruenta di Jackson Pollock”

Il testo di Manfridi è pubblicato da La Mongolfiera edizioni, con la mia introduzione. Eccone l’incipit.

Vivo… della mia morte, e se ben guardo / felice vivo… d’infelice sorte; / e chi viver non sa d’angoscia… e morte / nel foco venga, ov’io… mi struggo e ardo.

Sulla soglia «nel foco venga, ov’io… mi struggo e ardo».
Come pochi Giuseppe Manfridi (anche nelle sue incursioni nella prosa) sa raccontare gli istanti prima del momento supremo. Spingendosi, in questo testo dedicato a Pollock, nella direzione che tutti i narratori ambiscono di raccontare: gli istanti subito succesivi alla morte. L’ineffabile, di sgomento o di meraviglia.
Per il celebre pittore, i momenti seguenti al tragico incidente che lo sottrae al mondo (ma è poi proprio così, una sottrazione? Non è, al contrario, una moltiplicazione sembra interrogarci il testo?).
Mi vengono in mente, per letture coeve al testo di Manfridi, tra i moltisimi esempi contemporanei, Aldilà di Stanislao Nievo: duecento pagine per raccontare i secondi trascorsi dopo la morte del protagonista o lo stupendo ultimo “canto” narrativo di un autore quasi completamente postumo Dissipatio H.G. di Guido Morselli, che qualcuno ha voluto interpretare proprio come una lunga meditazione sulla soglia, nel limbo tra la vita e la morte.
E di dissipatio certo si può parlare per questo testo, già dalla scelta del protagonista maschile, non solo un pittore, ma il mito annientante e fecondo di una generazione. Un incontro fatale con Manfridi, necessario, in quel suo filone drammaturgico adamantino e originale: la sublimità dell’arte, forza dirompente, destabilizzante nelle mani di una materialità transeunte, malata, fisicamente o psichicamente, posta davanti ai soffocamenti e alla cattività della condizione umana, in un luogo imprecisato, scalino del tempio dedicato alla signora nostra morte corporale. Negli ultimi momento, appunto, della vita. In limine alla morte.
Leopardi, Puccini, Dostoevskij, Campana, Marlene per citare testi di grande successo, ma anche personaggi del mito, da Enea negli inferi, in Canto di mezzo, ad Andromaca e agli altri schiavi in attesa della distruzione della città in Ultimi passi per la salvezza dell’Epiro, testo recentemente pubblicato da Lepisma.
Alla sorprendente Didone, testo della fine degli anni Ottanta, ripreso più volte, ora pubblicato in questa splendida e meritevole collana di La Mongolfiera, ma a cui mi è capitate di assistere, insieme all’autore, alcuni giorni prima di scrivere questa introduzione, nella suggestiva messa in scena di Fabrizio Pucci (anche interprete di Ovidio), con Marina Guadagno, alla Stanze Segrete di Roma
Bruciarsi (si veda anche l’altro splendido testo davanti alla morte, non a caso pubblicato da La Mongolfiera con Didone, Arsa) l’intera vita con le schegge della divinità raggiunta nel gesto dell’arte, nella sfida continua alla morte e poi, come accade a Pollock, trovarsela davanti inaspettamente, sbalzati chissà da dove, feriti, nudi, equivocati e inequivocabili. Con un cadavere accanto.

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