Mi sono rivenute in mente queste parole di don Giussani rileggendo gli ultimi articoli di Pasolini, ottobre 1975, con il suo apocalittico scagliarsi contro i giovani, orrendamente tristi, incapaci di desiderare, di parlare se non a singulti, a sogghigni, dopo quel grande genocidio di tutte le diversità (la cultura contadina e il sottoproletariato) operato dal Potere consumistico. La moda, come la chiama Gius. Pasolini terminava quel periodo della vita, purtroppo l’ultimo, non potendo indicare nessuna alternativa, anzi dicendo di essere stato lui stesso coinvolto, fin nel suo corpo e nella sua sessualità, da questo genocidio. Non si può fare più nulla contro questo Potere.

L’abiura e l’incontro

La persona rinasce in un incontro
Luigi Giussani

Un avvenimento di vita, cioè una storia, Edit – Il Sabato, 1993, pp. 209-211

L’effetto Chernobyl
Vorrei iniziare questa nostra conversazione osservando una differenza tra l’attuale generazione di giovani e quella che ho incontrato trent’anni fa: la differenza risiede in una debolezza di coscienza nei giovani di oggi; una debolezza cioè non etica, ma relativa al dinamismo stesso della coscienza.

Non per nulla, dopo tanti anni, abbiamo messo a tema l’influsso nefasto e decisivo del potere, della mentalità comune e dominante – dominante in senso letterale.
È come se tutti i giovani d’oggi fossero stati investiti da una sorta di Chernobyl, di enorme esplosione nucleare: il loro organismo strutturalmente è come prima, ma dinamicamente non lo è più; vi è stato come un plagio fisiologico, operato dalla mentalità dominante.
È come se oggi non ci fosse più alcuna evidenza reale se non la moda – che è un concetto e uno strumento del potere.

Così anche l’annuncio cristiano stenta molto di più a diventare vita convinta, a diventar vita e convinzione. Quello che si ascolta e si vede non è assimilato veramente: ciò che ci circonda, la mentalità dominante, la cultura onniinvadente, il potere, realizzano in noi una estraneità rispetto a noi stessi. Si rimane cioè, da una parte, astratti nel rapporto con se stessi e affettivamente scarichi (come pile che invece di durare ore durano minuti); e, dall’altra, per contrasto, ci si rifugia nella comunità come protezione.

La persona ritrova se stessa in un incontro vivo
Se l’evidenza oggi più convincente sembra essere la moda, dove la persona può ritrovare se stessa, la propria identità originale? Quella che sto per dare è una risposta che non si attaglia solo alla situazione in cui siamo, ma è una regola, una legge universale (da quando e fin quando l’uomo c’è): la persona ritrova se stessa in un incontro vivo, imbattendosi cioè in una presenza che suscita un’attrattiva e la provoca a riconoscere che il suo «cuore» – con le esigenze di cui è costituito – esiste.

L’io ritrova se stesso nell’incontro con una presenza che porta con sé questa affermazione: «Esiste quello di cui è fatto il tuo cuore! Vedi, in me, per esempio, esiste». Perché, paradossalmente, l’originalità del proprio io emerge quando ci si accorge di avere in sé qualcosa che è in tutti gli uomini (questo è ciò che veramente mette in rapporto con chiunque e non fa sentire estraneo nessuno).

L’uomo riscopre la propria identità originale imbattendosi in una presenza che suscita un’attrattiva e provoca un ridestarsi del cuore, un sommovimento pieno di ragionevolezza, in quanto realizza una corrispondenza alle esigenze della vita secondo la totalità delle sue dimensioni – dalla nascita alla morte.
La persona si ritrova dunque quando in essa si fa largo una presenza che corrisponde alla natura esigenziale della vita: solo così l’io non è più nella solitudine. Normalmente, dentro la realtà comune, l’uomo, come «io», è nella solitudine, da cui cerca di fuggire con l’immaginazione e i discorsi.

Questa presenza che corrisponde alla vita è il contrario di un’immaginazione. L’incontro che permette all’io di riscoprire se stesso non è un incontro «culturale», ma vivente; non è un discorso fatto, ma un «fatto» vivente – che, beninteso, può palesarsi anche sentendo qualcuno che parla; quando costui parla, però, è con qualcosa di vivente che l’io è messo in rapporto, non con un’ideologia o un discorso disarcionato dalla forza della vita.

Non si tratta, insisto, di un incontro culturale, ma esistenziale. Tale incontro porta con sé due caratteristiche che ne costituiscono l’inconfondibile verifica: introduce nella vita una drammaticità, che consiste nel percepire una provocazione al cambiamento di sé e nel tentare un inizio di risposta, e nello stesso tempo introduce almeno una goccia di letizia, anche nella condizione più amara o nella constatazione della propria meschinità. Insomma, per usare un’altra espressione, ciò che deve accadere perché l’io riscopra se stesso è un incontro evangelico, capace di ricostituire la vitalità dell’umano: come l’incontro di Cristo con Zaccheo.

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