Tra le varie iniziative per i 100 anni dall’entrata in guerra dell’Italia, oggi 14 aprile, all’Istituto Sturzo di Roma, via delle Coppelle, 35, a cura dell’Istituto San Gabriele, incontro sulla Grande Guerra moderato da Antonia Arslan, la scrittrice di origine armena che ha contribuito in modo determinante, con i suoi romanzi, in particolare La masseria delle allodole, a far conoscere il genocidio di quel popolo di cui ha parlato il Papa e che, ostinatamente, la Turchia continua a negare. Qui sopra una brano del mio intervento. Dal 16 al 18 convegno Leggere la Grande Guerra alll’Università di Tor Vergata.

Scipio Slataper e Brand

Poco prima di arruolarsi in guerra da volontario, Scipio Slataper studia con foga Ibsen, per trarre, dalla sua tesi di laurea, una ponderosa monografia. Chiamato dall’urgenza dell’azione per la Patria, non finisce di correggere le bozze e corre all’azione. Muore in un episodio eroico, conscio del pericolo, offertosi volontariamente, sul Podgora, il 3 dicembre del 1915.
Il suo modello è stato Brand, con il suo motto intransigente: o tutto o nulla.

Andando avanti con lo studio di Ibsen per la sua monografia si sente oppresso da questo clima, invoca aria, luce, riuscendo a tirar fuori quello che finora aveva serpeggiato latente nel suo discorso: che alla più ardente purezza si accompagni la colpa è la sorte dell’uomo: Brand, invece di giudicare, aspramente anche se stesso «avrebbe dovuto amare, è l’amore di Dio che lo salva nel bene» . Lo aveva ben intuito Biagio Marin nei suoi interventi commossi sul giovane triestino (I delfini di Scipio Slataper), ricorda che subito dopo la stesura del Mio Carso, nel febbraio del 1912, Scipio ancora vicino al modello Brand, parlava già di sacrificio, ad esempio in una lettera a Guido Devescovi, denunciando una superbia accidiosa, che non riusciva a superare, se non desiderando di essere utile alla propria terra, all’umanità, alla patria. E aggiungeva: «”Il volle di Brand deve essere sulla mia tomba”». Una spirituale parentela a quell’altezza della breve vita dello scrittore, a cui Marin aggiunge il suo commento «quel volere non era bastato neanche a Brand» e più avanti, nel saggio-ricordo tra i più belli che si possano leggere per la generazione di quegli anni, insiste con l’affermare quanto Slataper si staccasse da Brand solo verso la fine della sua tragica esistenza, restandogli però l’intenzione di agire. Per Marin: «C’è in Scipio veramente Brand, che non conosce l’immanenza di Dio nella vita, oltre alla sua trascendenza, che non conosce, la carità, la grazia, che sole rendono possibile la via umana. Questo uomo religioso era a momenti un disperato senza fede. Mi fa paura dirlo. E che si trattasse di agonia lo dimostra quello che subito segue in una lettera dell’aprile 1912: “E proprio per questo l’uomo è l’uomo: perché è legato (religio, religione) a tutto, è consciamente, fidatamente legato a tutto”. Sì, così è, e in questo pensiero schiettamente religioso avrebbe dovuto placarsi». La soluzione, per Marin, è adombrata in una seguente espressione di Slataper, idealmente proponibile per sostituire il tutto o nulla: partecipare alla vita come meglio si può il resto vien da sé o non esiste: una prospettiva liberante, più vicina all’atmosfera di Shakespeare che a quella di Ibsen, il quale non piange, non s’abbandona e non ama, soffoca e scarnifica i suoi personaggi in preda al dubbio teoretico, con «secchezza luterana». Il buon pastore evangelico, secondo la bellissima immagine di Slataper, dolce e generosa guida a cui abbandonarsi, non tiene serrate le sue pecore intorno all’arido masso in cui è seduto, gli dona aria, le lascia libere di scorazzare per i monti: egli gli vorrà bene come sono. Ibsen, invece, «aspira alla santa vita, ma non può goderla: deve giudicarla» : se anche Dante giudica, lo fa con un trasporto e un tremore assente nel norvegese, totalmente incapace di perdonare. Soffocato da questa intollerabile inquisizione, Slataper, in una pagina celebre, cerca scampo nelle pagine di Shakespeare, il buon pastore, con la sua valigia piena di canti, capace di andare a scovare dappertutto le pecore smarrite «com’è “cattolico” questo suo amore, com’è caldo di grazia! Ha le braccia d’un dio questo sconosciuto uomo. Il suo regno è grande e ogni vizio e ogni virtù si coordinano nella fede interna, sicura, essenziale. La vita, tutta, è veramente santa».

Il superamento della posizione di Brand era ormai maturato, quel motto di energia e potenza molto simile a quelli dell’eroe ibseniano nella metafora dell’altezza «voglio morire alla sommità della mia vita», s’è mutato, scrive bene ancora Biagio Marin, nell’umile accettazione del dovere, volgendo il rischio della superbia e della empietà in «santa obbedienza». Non si tratta di un passaggio radicale, una svolta improvvisa, ma di un cammino in cui il centro di gravità della sua persona si sposta lentamente dall’ambizione della poesia all’aspirazione del sacrificio, della bontà, dell’obbedienza. Così ha senso anche il servire la patria, ulteriore e ultimo passo dell’itinerario di formazione di Scipio Slataper, bagnato con il sangue lì sul Podgora.

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