Letteratura e carcere, consigli di lettura, testimonianza di attualità. Rassegna pubblicata su Studium di guigno.luglio 2015.

«Come ce l’ho fatta io possono farcela anche loro a riscattarsi»

«Il carcere è in sostanza limitazione di spazio compensata da eccesso di tempo:
per un detenuto queste due caratteristiche sono palpabili. Non c’è da
sorprendersi se tale rapporto – che riecheggia la situazione dell’uomo nell’universo
– ha reso la carcerazione metafora integrale della metafisica cristiana
come anche quasi la levatrice della letteratura. Per quanto riguarda la letteratura
ciò è logico, in un certo senso, dato che essa è in primo luogo una traduzione
delle verità metafisiche in un determinato linguaggio» (Josif Brodskij,
introduzione a Scrittori dal carcere, Feltrinelli, 2008).
L’eccesso di tempo di cui parla Brodskij, in un senso universale e metafisico,
ha i suoi risvolti concreti nella vita quotidiana del detenuto, quali
che siano le sue condizioni nel carcere, di cui, purtroppo, sentiamo parlare
quasi esclusivamente in negativo per l’inumano sovraffollamento, più volte
denunciato dalla Comunità Europea, dalle associazioni operanti negli istituti
di pena, da papa Francesco, intervenuto autorevolmente anche sul tema
dell’ergastolo, definita una lenta morte, e sulla possibilità, al fine di un’autentica
ripresa della dignità umana, di pene alternative.
Un monito ai legislatori e ai responsabili delle istituzioni carcerarie non
solo teorico, ma contrassegnato dal cristiano esempio del perdono, con le
ripetute visite ai detenuti e con il gesto commovente e umile di lavargli i piedi
in occasione della Messa in Coena Domini.
Riempire positivamente il «vuoto del tempo dilatato» con la bellezza della
lettura e dello studio, e non con i racconti provenienti dalla cultura del
crimine, può essere determinante, se il detenuto è disposto ad una riflessione
aperta al cambiamento e alla richiesta di perdono, umano, religioso e civile.
All’esperienza di studio e di cultura in carcere, ormai presente in molti
istituti penali, con le eccellenze di Rebibbia e di alcune realtà della Toscana, si
legano i tre testi della collana di Universitalia editrice sotto la sigla del romanzo
carcerario di Jack London Il vagabondo delle stelle.
Il primo volume, miscellaneo, a firma dei tutor del progetto teledidattica in
carcere Rebibbia-Tor Vergata, dal titolo emblematico, Afferrare le redini di una
vita nuova (2014), unisce interventi critici sulla letteratura storicizzata in carcere
(Pavese, ad esempio), interviste ad operatori del settore, ad una seconda parte
antologica proveniente dai laboratori di scrittura svoltisi nel corso degli studi
universitari di Rebibbia.
Così i detenuti esprimono la loro gratitudine alla responsabile del progetto,
la docente di Storia moderna di Tor Vergata, Marina Formica, in una
lettera pubblicata nel volume:
«La condizione stessa della nostra detenzione è cambiata radicalmente, gli argomenti
di conversazione sono cambiati, gli approfondimenti relativi alle materie da
noi affrontate hanno permesso un allargamento degli spazi intellettuali che precedentemente
rientravano nell’alveo della quotidianità. Il rapportarsi con il personale
del tutoraggio, quello docente e quello degli assistenti sociali ed educatori, ha
reso il nostro percorso più completo e spesso chiarificatori su determinati argomenti
prima ignorati. […]
Siamo fiduciosi che le autorità preposte estendano questo progetto anche ad
altre carceri affinché la condizione del detenuto possa cambiare e la cultura possa
effettuare quei mutamenti fondamentali per avere una visione del mondo e della
vita completamente diversi. Che ognuno abbia la possibilità di crescere e di prendere
coscienza di eventuali errori commessi nel passato, allo stesso tempo di avere la
possibilità di rientrare nel tessuto sociale come uomo nuovo, con altri orizzonti
e più consapevolezze che solo attraverso la cultura è possibile raggiungere.
Come l’Araba Fenice, vorremmo poter ricostruire dalle ceneri delle nostre
vite un futuro nuovo per noi e le nostre famiglie, un futuro in rispetto dei nostri
simili e delle istituzioni. Vi ringraziamo dal profondo del cuore per questa
grande opportunità che oltre a cambiare le condizioni di vita di noi detenuti
ha cambiato il nostro stesso modo di vedere e affrontare la vita. Eraclito scrisse:
“Se non speri l’insperato non lo troverai…”. Voi avete fatto sì che l’insperato si
materializzasse». I detenuti della C.C. di Rebibbia del reparto G12 A.S. del progetto
Università in carcere.
Gli altri due libri della collana intrecciano esperienze di studiosi con testimonianze
dirette: sulla pluralità religiosa in carcere in Valeria Fabretti, Le
differenze religiose in carcere.
Leggiamo dall’introduzione: «Il tema del riconoscimento, rispetto e soddisfacimento
dei bisogni dei detenuti legati alla pratica della propria religione
e dunque al loro diritto al culto trova qui una prima collocazione come tassello
del quadro, appunto, di diritti di cui il nostro sistema carcerario deve
farsi carico, […] il tema dell’assistenza religiosa in carcere appare d’importanza
cruciale anche se posto attraverso altre chiavi di lettura. Se, come qui
si assume, le carceri riflettono in modo significativo dinamiche proprie della
società nel suo insieme, in un contesto multiculturale e multireligioso come è
destinato a essere sempre più anche quello italiano, si pone evidentemente la
questione dell’eguale rispetto dovuto alle diverse confessioni religiose “dietro
le sbarre” e dell’adozione di servizi di assistenza in grado di intercettare questa
pluralità».
Nel marzo 2015 esce il terzo volume della collana, Il sole e le stelle nel
nido di Rebibbia, a cura di Elena Zizioli e Antonella Cristofaro, con l’antologia
delle favole raccontate da alcune detenute ai loro bambini, costretti,
per necessità, a vivere nel carcere fino a tre anni, come prescritto dalla Legge
vigente.
Come scrive la Zizioli (pedagogista, docente a Roma Tre, autrice di due
altri volumi di carattere scientifico sul carcere, il primo, sempre con la Cristofaro
strettamente correlato, La raccolte delle rose. Donne recluse libere di
raccontarsi, Anicia, 2014, l’altro, dal titolo emblematico sulla cultura e lo
studio in carcere Essere di più. Quando il tempo della pena diventa il tempo
dell’apprendere, Le Lettere, 2014), oscilla tra i venti e i quaranta il numero dei
bambini che vivono accanto alle loro madri in carcere; la più recente ricerca
ne fissa il numero a ventotto. Nella casa circondariale di Rebibbia sono una
dozzina.
L’istituto penitenziale deve allora munirsi di appositi asili nido che «si
configurano come luoghi protetti dove la relazione madre bambino deve essere
tutelata e favorita; spazi, dunque, dove le stesse madri possono provvedere
alla cura e all’assistenza dei loro bambini».
La Cristofaro, con una suggestiva narrazione, in equilibrio tra favola e
realtà dura, difficile, di indubbia sofferenza, ci introduce nell’asilo nido, comunque
segnata dall’amore creaturale: «Poi è emerso il vocio dei bambini e
l’immagine è entrata in movimento: una donna africana stringeva tra le braccia
il suo bimbo, un’italiana spingeva un passeggino, un francesino giocava
con la narice della sua mamma e, infine, i gemelloni delle romnìà hanno
danzato nell’aria e tutti i corpi sono diventati culle […]. Come avere accesso al
luogo dell’anima che parla la lingua universale dell’uomo e che risuona dolce
come una romanza? Il racconto di una fiaba sembrò rivelarsi la chiave giusta».
La fiaba è il legame tra il mondo antico e il mondo nuovo, è ebbra di
emozioni e conosce la sapiente arte del cesello, dell’incastonatura delle parole.
Traduce, in modo «eloquente», il linguaggio delle emozioni, da madre
in figlio, dai tempi arcaici alle periferie di queste celle isolate dal resto del
mondo (in questo senso il secondo saggio introduttivo della Zizioli, Le fiabe
liberate e liberanti).
Favole multietniche, che pare appartengano ad un unico archetipo collettivo,
dalla Bosnia all’Africa, dall’Oriente alle popolazioni rom (con l’innato
bisogno di movimenti e la condizione penosa di reclusione), dai risvolti dolorosi
e un soffio di speranza, una strenua carezza di umanità da accordare, comunque,
ai propri figli. Il volume si arricchisce dei magnifici disegni a pastello
realizzati dalle mamme detenute del reparto femminile di Rebibbia.
In La pepita più bella la bambina rom bosniaca perde una mano, per lo
scoppio di un petardo di capodanno nascosto dentro un pacco regalo abbandonato
per strada. Il padre, reduce dalle guerre di quella straziata regione,
grida come fosse stata una mina a colpire la sua piccola figlia. La descrizione è
realistica, sconfina nella favola nel dipingere il cielo di Roma, l’attitudine dei
rom di cercare per le strade giocattoli e utensili abbandonati, paragonati alla
caccia all’oro.
In un significativo rito di passaggio (l’eco del perdono, la coscienza della
propria colpa) la pepita torna a far sorridere la fanciulla, diventata ragazza e
poi donna, con cinque figli e «l’amore che disponeva di tre mani assegnò a
loro la pepita più bella: la felicità».
Non mancano le favole di completa fantasia, abbondano le matrigne, le
vedove cattive: l’amore materno deve essere riconquistato, per lo più dalle ragazze,
prima abbandonate e poi felici di avere dei figli. Un circolo sperimentato,
evidentemente, da molte di queste mamme detenute e, in qualche modo
il destino dei loro bimbi, una volta trascorso il periodo in carcere.
L’immagine del Papa, di quel 3 aprile 2015 a Rebibbia, che bacia i piedi
alla mamma africana (non smetteva di piangere di gratitudine) e al suo bimbo
piccino ha fatto il giro del mondo come esempio sublime di carità, partecipe
e commossa. Si tratta proprio della ragazza africana di questo libro, ritratta
nello splendido disegno di copertina mentre, dolcemente, tiene al petto la sua
creatura.
Un tema, quello dei bambini in carcere, che diventa fiction in Rosella Postorino,
Il corpo docile, Einaudi, 2013. La protagonista, Milena, è proprio una
figlia del carcere, dove ha passato con la madre i primi tre anni di vita. Una
esperienza che non può dimenticare, nel bene e nel male. A vent’anni, di nascosto
dalla madre, diventa volontaria in carcere e lavora all’asilo nido di Rebibbia.
Eppure, di fronte alla realtà, continua a percepirsi «un corpo docile»,
definizione con la quale Michel Foucault descriveva un fisico e dunque una
psiche forgiati indelebilmente dall’obbedienza alle regole ferree del carcere.
Se queste imposizioni avvengono nei corpi e nei sentimenti dei neonati,
fino a tre anni, resteranno indelebili, come nel caso di Milena di fronte ad
un incontro importante per la sua vita, quello con il giornalista interessato al
fenomeno dei bambini in carcere.
Si legga a p. 186 l’oggettivazione romanzesca, ma estremamente realistica,
della celebre teoria di Foucault sui meccanismi repressivi del carcere:
«I corpi docili di noi detenuti. Decidono quando e quanto dobbiamo mangiare,
quanto e quando dobbiamo dormire, quanto e quando dobbiamo parlare. Si chiama
civiltà. Una pena senza dolore. No, senza spettacolo del dolore. Non ci vede
nessuno».
Se la storia d’amore, con queste barriere iniziali, è fin troppo facile terreno
narrativo, il libro della Pastorino ci offre le sue pagine migliori nel rapporto
con la madre ancora in carcere, nella descrizione dell’attività dei volontari e
nelle condizioni dei bambini costretti a vivere reclusi, ma anche degli uomini
e delle donne della polizia penitenziaria.
Storia singolare, se fossimo nel campo della pura fantasia, tragicomica,
degna del miglior Pirandello. Ed è invece una storia vera, «nata da un errore»
per una distorsione clamorosa (cosciente) della realtà da parte dei genitori del
protagonista autobiografico del libro: nato uomo viene iscritto alla anagrafe
come donna.
Le vicende di Anthony, detenuto a Rebibbia femminile in Ero nato errore,
Pagine, 2014, vengono raccontate in un suggestivo, quanto autentico
e drammatico, scambio di linguaggi tra Nina Maroccolo, attrice, scrittrice,
drammaturga, da anni impegnata in laboratori di poesia in carcere, e la voce
sgrammatica dell’«uomo», intento a capire i perché dei fatti che lo hanno
coinvolto, della sua natura impossibile da racchiudere in un documento di
identità, dove è segnato come Antonella, nonostante la foto dica il contrario.
In carcere per piccoli furti, deve ancora scontare 13 anni. Troppi per i reati
commessi. Nella sua vita di vagabondo senza tetto, molto sono gli incontri di
carità con gli angeli della strada e con molti poliziotti gentili.
Due frasi del libro sono sufficienti a renderne l’energia destabilizzante,
l’anomalia:
«Cari lettori sono qui a Rebibbia da settembre 2013 e da qui che ho scritto questo
libro per dar voce e riscattarmi».
«Considerate la mia storia, sono colpevole di tutto, ma non del brutto romanzo
che mi ha schiacciato».
Ancora da Rebibbia femminile proviene l’antologia curata dalla poetessa e
direttrice di vari laboratori di scrittura in carcere Patrizia Lanzalaco e dalla
educatrice Fabiana Binachi, Frustrando l’acqua non si arresta il fiume, per Micione
editore, 2014.
Il premio Goliarda Sapienza raduna racconti di detenuti in collaborazione
con scrittori affermati, quali Erri De Luca, Franco Cordelli, Edoardo Albinati.
A cura di Antonella Bolleli Ferrera ha prodotto diversi volumi antologici
di racconti dal carcere, Volete saper chi sono io, Mondadori, 2011, Siamo noi,
siano in tanti, ERI, 2012, Mala Vita, ERI, 2013, Il giardino di cemento armato,
ERI, 2014.
Con il successo internazionale di Cesare deve morire, girato dai fratelli Taviani
con gli attori della Compagnia teatrale di Rebibbia (non è l’unica) del
regista Fabio Cavalli e del detenuto ergastolano Cosimo Rega (autore di una
struggente e significativa autobiografia, Sumino O’ Falco, Robin, 2012), è arrivata
la notorietà (non sempre positiva), per le numerosissime attività teatrali, nelle
carceri italiane: la cultura e la letteratura che si mescolano alla necessità, per i
detenuti, del movimento fisico.
In una recente ricerca della Direzione generale dei Detenuti del Ministero
della Giustizia risulta che in circa la metà delle carceri si tengono laboratori
teatrali, un centinaio di esperienza, calcolando anche che, in alcuni istituti
penitenziari come ancora Rebibbia, le compagnie sono più di una.
Molte anche le testimonianze scritte di questo fenomeno, con l’attività
meritoria dell’editore Titivillus, che dà alle stampe la rivista Quaderni teatro carceri, del coordinamento teatro carcere dell’Emilia Romagna. Nel ricco
catalogo di questo editore, spiccano Alla periferia del cielo, percorsi umani e
teatrali nel carcere di Arezzo, Titivillus, Corazzano, 2007, e sempre dello stesso
editore, specializzato nella pubblicazione di opere sul teatro contemporaneo,
l’importante volume riepilogativo, con un bellissimo apparato iconografico,
A scene chiuse. Esperienze e immagini del teatro in carcere, del 2008, a cura di
Andrea Mancini, con scritti di personalità varie del teatro, quali Judith Malina
dello storico gruppo del Living Theatre, il regista Armando Punzo (tra i più
impegnati su questo versante carcerario), un altro personaggio storico delle
avanguardie italiane, Gulia Scabia, lo storico del teatro Ferdinando Taviani e
altri. Nel volume, A scene chiuse, del 2009, il critico e docente teatrale Massimo
Marino ha pubblicato una indagine sulle esperienze teatrali tra i detenuti.
Sempre di Marino il commento a tre spettacoli teatrali realizzati nelle
carceri minorili, in Il mare dietro un muro, racconto-analisi di tre spettacoli
nati nei carceri minorili di Milano, Bologna e Palermo, con le foto di Maurizio
Buscarinpe le edizioni Electa, 2006.
Ancora dedicati ai minorenni: Flavio Maracchia, Questi anni e stato solo
guai: un laboratorio con i ragazzi del carcere minorili di Casal del marmo a
Roma, Effatà, 2009; Alla luce delle prove. Il teatro nel carcere minorile di Bologna,
Bonomia università press, 2009, con un suggestivo quanto drammatico
reportage fotografico; Recito, dunque sogno. Teatro in carcere, Edizione Nuova
Catarsi, 2009, a cura di Emilio Pozzi e Vito Minoia.
Vale per tutte queste esperienze culturali in carcere l’energico invito di
Salvatore (Sasà) Striano, il Bruto di Cesare deve morire, libero cittadino da
tempo e ormai affermato attore internazionale, dal successo di Gomorra a
quello di Napoli, Napoli di Abel Ferrara. Quando era ancora in carcere, aveva
detto:
«A Shakespeare che mi ha cambiato la vita. Se mi fai uscire di qui, dedico 10 anni
a raccontare la mia storia a chi sta peggio di me. Appena posso vado nelle carceri e,
con tutto il fiato che ho, dico ai ragazzi che, come ce l’ho fatta io, posso farcela anche
loro a riscattarsi» (cfr. D. Grella, Shakespeare ci fa liberi, in Vita, n. 3, marzo 2015).

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