Dopo il caso Buzzi (due lauree in carcere, assunzione di tanti ex detenuti, presunto boss di mafia capitale) e quello di Sofri, si parla molto dell’utilità della cultura in carcere. Venerdì a roma parteciperò ad un dibattito in merito dopo la proiezione del documantario sul Macbeth interpretato da detenuti di Rebibbia per merito del regista Giancarlo Capozzoli. Chi fosse nei paraggi…

Macbeth a Rebibbia

H21:00

Via San Francesco di Sales 1a

La Casa (S)piazza

CineArena – Macbet. 6 per 1

di Giancarlo Capozzoli, Italia, 60’. Il riscatto attraverso l’arte a partire dallo spettacolo realizzato dai detenuti della Casa circondariale di Rebibbia di Roma. A seguire Stasera parliamo di… Giancarlo Capozzoli, Andrea Valeri, Francesca Romana Recchia Luciani, Luciano Violante, Fabio Pierangeli, Mauro Palma. Reading dell’attrice Paola Michelini.

Organizza: Casa Internazionale delle Donne

Intervista a Giancarlo

“[…] nella vita il teatro si sforzerà di esprimere tutto quello che la vita dimentica, dissimula, o è incapace di esprimere” – scriveva nel secolo scorso Antonin Artaud, uno dei massimi teorici del teatro. Il progetto si fonda sull’idea che l’incontro dei detenuti con il teatro – e con l’arte in generale – possa aiutare queste persone a ristabilire un contatto con i valori fondamentali della vita. Attraverso i sentimenti e le sensazioni che traspaiono dalla pièce, e che i detenuti/attori sono chiamati a interpretare – quindi in qualche modo a rivivere – l’ambizione è quella di regalare loro un’esperienza non solo artistica, ma esistenziale, in cui la recitazione diventi un processo psicologico di riscoperta del sé. Il teatro come terapia. E la scelta di un’opera come il “Macbeth” di Shakespeare non è casuale. “Macbeth” è la tragedia dell’ambizione umana e delle sue nefaste conseguenze; in essa agiscono personaggi psicologicamente complessi, foschi, acciecati dalla malvagità, ma anche tormentati dai sensi di colpa, disperati.

E l’approccio adottato è del tutto particolare. L’idea è quella di fare un teatro incentrato sull’azione e non sulla parola. Teatro come “drama”, dal greco “dran”, che significa appunto agire. Lasciando agli attori la completa facoltà di esprimersi attraverso il libero movimento del corpo, l’aspirazione è quella di offire loro la possibilità non di riappropriarsi, ma di sperimentare la loro libertà, travalicando, con il corpo e con la mente, i confini della prigionia.

Ma l’esperienza si è rivelata fonte di arricchimento non solo per i detenuti, ma anche per il regista, gli attori e tutti coloro che hanno realizzato il laboratorio. E’ stato un momento di crescita attraverso il confronto reciproco perché ognuno ha messo a disposizione non solo il proprio tempo, ma i propri valori, le esperienze, la propria libertà. E la stessa rappresentazione potrà rivelarsi occasione di crescita e arricchimento personale anche per il pubblico. Il teatro, per dirla con Aristotele, è mimesi, cioé imitazione della realtà; come scrive Jean-Pierre Vernant, antropologo e storico della filosofia e delle religioni, a proposito della tragedia greca, “la tragedia monta un’esperienza umana a partire da personaggi noti, ma li installa e li fa sviluppare in modo tale che […] la catastrofe che si produce, quella subita da un uomo non spregevole né cattivo, apparirà come del tutto probabile o necessaria. In altri termini, lo spettatore che vede tutto ciò prova pietà e terrore, ed ha la sensazione che quanto è accaduto a quell’individuo avrebbe potuto accadere a lui stesso”. Avvicinamento non solo fra attori e organizzatori, ma anche e soprattutto fra i detenuti e il pubblico.

No Comments

Leave a Reply

Your email is never shared.Required fields are marked *