Ancora dal bel libro di interviste di Aldo Onorati un omaggio ad uno scrittore dimenticato, Saviane

LA LIBERTÀ DELLO SCRITTORE SECONDO GIORGIO SAVIANE (1976)

Firenze è la città in cui vive e lavora Giorgio Saviane, autore del romanzo Il mare verticale e di altri stimolanti libri quali Il papa e Il passo lungo. A Saviane, che seguiamo da tempo con la simpatia che merita, abbiamo chiesto:
− Rivolgiamo questa domanda proprio a un autore di successo: uno scrittore può vivere solo col suo lavoro letterario?
− Dipende da come vive: se applica la retorica della povertà non soltanto a parole, penso che possa. Io non ce la farei proprio anche se non fumo, non bevo, non mangio: ho tuttavia la retorica opposta, di spenderli tutti. Tutti possono essere anche pochi, ma per chi si è abituato a spender tutto, è difficile anche se siano pochi. Se però si considera lavoro dello scrittore quello giornalistico e quello radiotelevisivo o del cinematografo, allora uno scrittore di successo può discretamente campare. Certo, se penso a quanto lavoro richiede un romanzo, lavoro di architettura oltre che di scrittura, dovremmo dire che i peggiori pagati sono proprio gli scrittori.
− La generale convinzione secondo la quale lo scrivere non è un lavoro vero e proprio, ma un hobby da tenersi per ultimo nei ritagli di tempo, obbliga un autore a svolgere una professione per vivere. Le migliori energie se ne vanno per un impegno che, il più delle volte, non interessa, o non coincide con quello vocazionale. Fino a che punto tutto ciò incide negativamente sull’opera?
− Io ho un altro lavoro, oltre quello dello scrittore, ma le mie migliori energie le colloco proprio a scrivere, la mattina quando mi sveglio (possono essere le cinque come le nove) fino alle due le tre del pomeriggio. D’altra parte ritengo che la mia professione di avvocato ci guadagni enormemente dalla riflessione che io compio sulla pagina, tant’è vero che i miei clienti se si sentono trascurati nel tempo che io dedico a loro, non lo sono altrettanto per i risultati, risultati per lo più dovuti alla diligenza delle idee che ho imparato a disciplinare nella mia opera di romanziere. Che è veramente un lavoro massacrante, per usare una parola consueta, ma io direi meglio macerante, perché nella fatica sgorga intanto felicità e poi maturità che dà i suoi frutti quasi ora per ora. Sempre che per maturità non si intenda quella dei benpensanti, o della saggezza stereotipa che è solo un consentire ai pragmatismi e ai tabù del momento opportunistico. Il coraggio di contraddire, ad esempio, è la maggiore maturità, quando si contraddica il sacro di moda. La nostra infatti è ancora una civiltà tutta sacra, anche e soprattutto per certo dogmatismo che si è consacrato ad una dissacrazione conveniente. Il compito dello scrittore è capire queste cose, e capire non è un merito ma un compito: attendere però con le antenne tese la rivelazione del conoscere distrae dal fare, e fare conta: bisognerebbe che chi fa attuasse ciò che lo scrittore ha colto, perché capire è appunto un compito al quale bisogna dedicarsi professionalmente: questo è lo scrittore. Non buttar le storiette che compiacciono, ma inventare storie per comunicare nuova conoscenza.
− In Italia, uno scrittore è veramente libero di scrivere quello che vuole senza correre rischi di emarginazione e di congiure del silenzio?
− Molte volte mi sono sentito fare questa domanda con un certo scetticismo. Dirò che talvolta mi sento anch’io coartare a non dire, ma sulla cronaca, su certa politica. Quando scrivo, invece, dispiego interamente le mie idee, per lo più rivoluzionarie, e se ho trovato anche molta incomprensione, devo dire che ho trovato anche molti lettori: certamente più di quanti mi aspettassi. Non più di quanti desidererei: sinceramente io vorrei che i miei libri fossero letti da tutti, non ho nessuna vergogna a confessare questa mia ambizione, che poi ritengo sia l’ambizione dello scrittore, anche se non sempre confessata. Le idee sono l’unica cosa di cui non si sia gelosi. L’idea infatti è avulsa da ogni rigore animale di proprietà, primo atto umano scevro dai tabù anche se ha contribuito a crearli tutti. Certo se io avessi esercitato il mio scrivere sulle idee conformistiche, probabilmente il successo mi avrebbe arriso prima che fossi costretto a intraprendere un’altra professione per campare. Però sono più contento così, ritengo che uno scrittore non possa essere veramente libero se mangiare dipenda da quello che scrive, se viene indirettamente coartato senza che se ne accorga: perciò la posizione dello scrittore, o è quella dell’indipendente o è quella del servo del conformismo, e non importa la buona fede. Anzi la buona fede rende crudeli i vessilli conformistici, togliendogli anche quel po’ di dubbio che dà la cattiva coscienza: meglio, in altre parole, un ladro che sappia di rubare, piuttosto che un ladro che creda di compiere il furto in nome di Cristo o di altri profeti.
− Come mai escono sempre di meno opere impegnate politicamente, in un senso o nell’altro (salvo, poi, a considerare impegnati anche quei romanzi e quelle sillogi di versi che parlano, magari per caso, di fabbriche o di pastori)?
− Probabilmente perché non ci sono falsi scrittori: un’opera impegnata sulla prassi della politica quotidiana è infatti solo un commento, per dirla eufemisticamente, di idee altrui. Lo scrittore non può compiere la sua opera che a monte della prassi, la sua opera non può che essere strettamente teorica, solo così è originalmente creativa e su di essa dovrebbe formarsi la prassi politica e non diversamente.
− In molti paesi dell’Oriente e dell’Occidente ci sono vere e proprie sagre della poesia e la gente fa la fila davanti alle librerie o fuori i teatri quando ci sono incontri con gli autori. In Italia, nemmeno gratis la gente va a una conferenza o a una lettura di versi, ecc. Le cause?
− Quando l’Italia era uno dei maggiori paesi del mondo avevamo Dante Alighieri appunto, interprete di un’idea al colmo della sua maturità, e poi Petrarca e l’Ariosto che, in modi diversi, ci hanno dato della grande poesia popolare, sia pure sofisticatissima. Adesso in Italia manca il lettore della poesia, perché non c’è più un’idea importante che la regga. Oppure, se c’è, è destinata come la grande poesia di Dante Alighieri, a prorompere quando l’idea dispieghi la sua prassi, magari come recupero, come forza già condannata.
− Recentemente sono accadute due cose importanti: il Nobel a Montale e la morte di Pasolini. Raramente si assiste a una concordia di pareri come per il premio all’autore di “Ossi di seppia”: e questo si deve tanto all’universale riconoscimento della grandezza di Montale quanto al mito che si è formato intorno al poeta. Ma la domanda di conclusione della nostra intervista scivola prepotente su Pasolini: al di là del personaggio “scandalistico”, contraddittorio, ossessionato dalla sua “diversità”, che ha cercato di difendere accusando la società morale, cosa resterà di Pasolini?
− Credo che ciò che rimarrà soprattutto di Pasolini sarà l’essere stato il personaggio capace di dare all’omosessualità la sua dignità originaria, e cioè, in senso strettamente biologico, precedente alla eterosessualità. Infatti persino la psicologia ci insegna che la pulsione sessuale è, storicamente, prima narcisisitica e poi omosessuale, essendo la disparità dei sessi un fatto posteriore all’organismo monocellulare e monosessuale. E che tale dignità sia una sua vittoria lo dimostra il fatto che, se chiunque fosse morto in caccia di un minorenne, probabilmente la vergogna conformistica avrebbe sopraffatto l’avvenimento, mentre la morte di Pasolini rimane giustamente una morte eroica ad affermare il diritto del sesso a desiderare ciò che desidera e non ciò che il costume gli impone. La Bibbia insegna che l’anziano sente il fascino della giovinezza e viceversa: però se una professoressa osa amare un suo allievo deve poi uccidersi sull’ondata dell’invidiosa riprovazione. Pasolini finalmente no. Però ha dovuto affermare morendo: anche lui, probabilmente sopraffatto da una reazione che ha dato al giovinetto la forza mostruosa del perbenismo pronto a strangolare ogni iniziativa di autentica libertà. Ecco, io per esempio confesso che mi piacciono le eterosessuali giovani, e se dovessi morire per affermare che questo non è peccato credo che ciò varrebbe quanto i miei romanzi.

«La Tribuna», 30 gennaio 1976

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