Propongo la prima parte dell’introduzione al mio volume E’ finita l’età della pietà. Pasolini, Calvino, S.Nievo e i mostri del Circeo, Sinestesie 2015.
Il quadro di Munch che ho visto a Oslo se non fosse sotto diritti sarebbe stata una copertina del volume molto adatta.

Il contrappasso del desiderio (Pasolini-Testori)

Il dono e la condanna di una interrogazione abissale accompagnano l’opera letteraria e la vita di Pasolini. A quarant’anni di distanza dalla tragica morte, l’eco della domanda va ben oltre la fine, più attuale del desiderio narcisistico, dello scandalo, dell’atteggiamento polemico che pur la muovono, ne costituiscono elementi necessari.
L’urlo che deforma i lineamenti nel parossismo e nella intensità, come il corpo caduto da cavallo e trascinato sulla strada polverosa e sulla pietre, si oppone, figurale contrappasso, al vuoto volgare intravisto nei giovani dalla metà degli anni Sessanta in poi. Nel linguaggio e nel corpo.
Pasolini sconta con l’atroce morte (quasi un martirio laico) la presunta ignavia dei ragazzi.
Tra le testimonianze più crude e autentiche sull’assassinio di Pasolini, l’articolo di Giovanni Testori, su «L’Espresso» del 9 novembre 1975, mette in luce questi aspetti.
Lo ripropongo per intero: autorevolmente, con immediatezza tragica, poiché si presta ad introdurre le tematiche di questo volume, relative all’ultimo mese di vita del poeta: la solitudine orrenda, la divisione e la ricerca dell’unità,(lacerazione e agapè), la nostalgia e l’imminenza di un incontro legato ad una vitalità incontinente, l’inquietudine e la passione luterana. Su tutto la necessità implacabile di rispondere ad un potente desiderio, iperbolico, ipertrofico, di unità e di amore:

Sull’atroce morte di Pasolini s’è scritto tutto; ma sulle ragioni per cui egli non ha potuto non andarle incontro, penso quasi nulla. Cosa lo spingeva, la sera o la notte, a volere e a cercare quegli incontri? La risposta è complessa, ma può agglomerarsi, credo, in un solo nodo e in un solo nome: la coscienza e l’angoscia dell’essere diviso, dell’essere soltanto una parte dl un’unità che, dal momento del concepimento, non è più esistita; insomma, la coscienza e l’angoscia dell’essere nati e della solitudine che fatalmente ne deriva. La solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso da quando diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare coloro che, con un aggettivo turpe e razzista, si ha l’abitudine di chiamare «diversi».
Allora, quando il lavoro è finito (e, magari, sembra averci ammazzati per non lasciarci più spazio altro che per il sonno e magari neppure per quello); quando ci si alza dai tavoli delle cene perché gli amici non bastano più; quando non basta più nemmeno la figura della madre (con cui, magari, s’è ingaggiata, scientemente o incoscientemente, una silenziosa lotta o intrico d’odio e d’amore) e si resta lì, soli, prigionieri senza scampo, dentro la notte che è negra come il grembo da cui veniamo e come il nulla verso cui andiamo, comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperante di trovare un appoggio, un riscontro; di trovare un «qualcuno»; quel «qualcuno»; che ci illuda, fosse pure per un solo momento, di poter distruggere e annientare quella solitudine; di poter ricomporre quell’unità lacerata e perduta. Gli occhi, quegli occhi; la bocca, quella bocca; i capelli, quei capelli; il corpo, quel corpo; e l’inesprimibile ardore che ogni essere giovane sprigiona da sé, come se in esso la coscienza di quella divisione non fosse ancora avvenuta, come se lui, proprio lui, fosse l’altra parte che da sempre ci è mancata e ci manca. Mettere dl fronte a queste disperate possibilità e a queste disperate speranze il pericolo, fosse pure quello della morte, non ha senso. Io penso che non s’abbia neppure il tempo per fare dì questi miseri calcoli; tanto violento è il bisogno di riempire quel vuoto e di saldare o almeno fasciare quella ferita.
Del resto, chi potrebbe segnalarci che dentro quegli occhi, dentro quella bocca, quei capelli e quel corpo, si nasconde un assassino? Nella mutezza del cosmo queste segnalazioni non arrivano; e anche se arrivassero, torno a ripetere che il bisogno di vincere quell’angoscia risulterebbe ancora più forte e ci vieterebbe d’intendere.
Si parte; e non si sa dove s’arriva. Per sere e sere, una volta avvenuto l’incontro, l’illusione riprecipita in se stessa. Ma nella liberazione fisica s’è ottenuta una sorta di momentanea requie; o pausa; o riposo. La sera seguente tutto riprende; giusto come riprende il buio della notte. E così gli anni passano. La distanza dal punto in cui l’unità perduta è diventata coscienza si fa sempre maggiore, mentre sempre minore diventa quella che ci separa dal reingresso finale nella «nientità» della morte; e dalle sue implacabili interrogazioni. Le ombre, allora, s’allungano; più difficile si rende la possibilità che quell’incontro infinite volte cercato, finalmente si verifichi; più difficile, ma non meno febbricitante e divorante. La vicinanza della morte chiama ancora più vita; e questo più o troppo di vita che cerchiamo fuori di noi, in quegli incontri, in quegli occhi, in quelle labbra, non fa altro che avvicinare ulteriormente la fine. Così chi ha voluto veramente e totalmente la vita può trovarsi più presto degli altri dentro le mani stesse della morte che ne farà strazio e ludibrio. A meno che il dolore non insegni la «via crucis» della pazienza. Ma è una cosa che il nostro tempo concede? E a prezzo di quali sacrifici, dl quali attese o di quali terribili e sanguinanti trasformazioni o assunzione di quegli occhi e di quelle labbra?

Pasolini muore un mese dopo il delitto del Circeo, degli ultimi giorni di settembre del 1975.
Ha divorato la vita con maggior avidità: rientra nella logica dei fatti morire ancor «giovane», aveva scritto di se stesso e lo ripete Testori, come si è appena letto.
Nell’acceso dibattito su quell’atroce episodio, che scosse violentemente l’opinione pubblica, Pasolini interviene con ben quattro articoli (e in altre testimonianze rese alla stampa), tra i suoi ultimi raccolti poi in Lettere luterane: Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio, 8 ottobre 1975, «Corriere della sera», Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia, (dove parla del crimine della passività e infelicità) «Corriere della sera», 18 ottobre, 1975, Le mie proposte su scuola e Tv, «Corriere della sera», 29 ottobre 1975, Lettera luterana a Italo Calvino, «Il Mondo», 30 ottobre 1975.
Tra gli altri, fanno sentire la loro voce nel dibattito sulla criminalità giovanile, in quei giorni di inizio ottobre, Dacia Maraini, Elisabetta Rasy, Lietta Tornabuoni, Stefano Rodotà. E ancora, in polemica diretta con lo scrittore corsaro e luterano, Italo Calvino e Alberto Moravia
Nella accelerazione iperbolica degli ultimi giorni, la ripetitiva «litania» sul genocidio delle culture millenarie in Italia, intreccia, al commento del delitto Circeo, due avvenimenti contemporanei: l’inizio del nuovo anno scolastico, la messa in onda televisiva di Accattone. Scuola e televisione sono gli strumenti efficaci del genocidio, ordito da un potere consumistico tanto capillare quanto senza volto.
Infelicità e passività non sono colpe minori della violenza criminale, afferma in uno dei suoi giudizi più antropologicamente radicali, su cui è obbligo confrontarci, ancora oggi e come si prefigge questo volume.

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