Ciao carissimo Claudio, amico dei tempi dell’università, la tua intelligenza musicale è rimasta intatta!! Con altri amici, tra cui Giuseppe Frangi e Pina Baglioni, con il fotografo Massimo Quattrucci, super.Massimo, anima il sito di Davide Malacaria Piccole Note di varia interessantissima attualità

Wish you were here: 40 anni dopo


di claudio perini, tratto dal sito Piccole Note
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un salto in­die­tro di ben qua­ran­t’an­ni con la band in­gle­se dei Pink Floyd, for­ma­zio­ne che ha co­no­sciu­to un suc­ces­so pla­ne­ta­rio nel bel mezzo degli anni ’70.

Quel­lo suo­na­to dai Floyd è un ge­ne­re mu­si­ca­le stra­no: non è pro­gres­si­ve per­ché non sono pre­sen­ti par­ti­co­la­ri abi­li­tà tec­ni­che (si pensi ad esem­pio ai vir­tuo­si­smi di grup­pi loro con­tem­po­ra­nei come i Ge­ne­sis o la no­stra­na PFM) né tan­to­me­no ri­chia­mi alla mu­si­ca clas­si­ca, pur ri­cal­can­do­ne le lun­ghe strut­tu­re; non è nean­che rock, per­ché non c’è una ma­tri­ce di ri­bel­lio­ne ge­ne­ra­zio­na­le (Rol­ling Sto­nes, e ancor prima Elvis Pre­sley) pur ri­pren­den­do­ne a volte gli sti­le­mi e le so­no­ri­tà.

Si è ten­ta­to di in­qua­dra­re al­lo­ra i Pink Floyd nella co­sid­det­ta “mu­si­ca d’ar­te” con una certa pre­ten­zio­si­tà. Certo è che il quar­tet­to in­gle­se sfug­ge alle clas­si­fi­ca­zio­ni, com’è pro­prio dei gran­di.
Wish you were here è un disco del 1975, un con­cept album de­di­ca­to a Syd Bar­rett, ex mem­bro e fon­da­to­re dei Floyd, al­lon­ta­na­to de­fi­ni­ti­va­men­te dalla band nel 1968 per l’in­sor­ge­re inar­re­sta­bi­le di gravi pro­ble­mi di or­di­ne psi­chia­tri­co. Na­sce­rà da quel mo­men­to un vero e pro­prio culto del per­so­nag­gio Bar­rett da parte dei fans: come spes­so ac­ca­de, in­fat­ti, il pub­bli­co tende a tra­sfor­ma­re la paz­zia (si­mu­la­ta o cli­ni­ca) in ro­man­ti­ci­smo, con con­se­guen­ze de­le­te­rie per se stes­si e il ter­mi­na­le di tale ido­la­tria.

“Wish you were here” parla esat­ta­men­te di que­sto mec­ca­ni­smo per­ver­so, ov­ve­ro di come il suc­ces­so (e prin­ci­pal­men­te le aspet­ta­ti­ve di mi­lio­ni di per­so­ne ri­po­ste in un sin­go­lo uomo) porti al­l’e­sa­spe­ra­zio­ne in­di­vi­dui fra­gi­li e vul­ne­ra­bi­li: fama e po­te­re che si tra­sfor­ma­no in soldi, in ap­pa­ren­te on­ni­po­ten­za, fa­reb­be­ro va­cil­la­re chiun­que. Que­sto è ben il­lu­stra­to nei due brani “wel­co­me to the ma­chi­ne” (“ben­ve­nu­to nel mec­ca­ni­smo”, ap­pun­to) e “have a cigar” (“pren­di­ti un si­ga­ro”, brano com­po­sto iro­niz­zan­do sul ma­na­ger di­sco­gra­fi­co com­pia­cen­te che ha sot­to­ma­no un con­trat­to van­tag­gio­so per la band).

Il disco dun­que viag­gia su due bi­na­ri di­stin­ti: uno è quel­lo pro­fon­da­men­te umano, dello scon­for­to per la per­di­ta del­l’a­mi­co (“wish you were here” – “vor­rei che fossi qui”, e “shine on you crazy dia­mond” – “con­ti­nua a splen­de­re, pazzo dia­man­te”) e che si di­pa­na su at­mo­sfe­re mu­si­ca­li in­ti­mi­ste e so­gnan­ti, e l’al­tro è il bi­na­rio della de­nun­cia verso lo show bu­si­ness, la mac­chi­na che pro­du­ce soldi fa­go­ci­tan­do uma­ni­tà. Un sorta di dia­bo­li­co mec­ca­ni­smo sper­so­na­liz­zan­te che è la morte del­l’a­ni­ma.

Un’o­pe­ra che fa ri­flet­te­re an­co­ra oggi, per la sua mae­sto­si­tà mu­si­ca­le – basti pen­sa­re alla ce­le­bre in­tro­du­zio­ne del disco – e per la com­ples­si­tà dei temi af­fron­ta­ti. Un’o­pe­ra dun­que che parla del­l’a­ni­ma, di come la si possa smar­ri­re, ven­de­re, ba­rat­ta­re e non ria­ve­re in­die­tro più. Che in­se­gna come si possa tra­mu­ta­re in Mu­si­ca l’or­ro­re di per­de­re se stes­si (una ver­sio­ne su you­tu­be si può ascol­ta­re clic­can­do qui).

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