Luca Telese intervista Salvatore Cuffaro. Condivido alla lettera tutte le impressioni, vivissime del giornalista.

Lo rivedo dieci anni dopo, in una stanza di Rebibbia: un altro uomo. Maturo, serio, diverso

Cuffaro: «Il carcere è fatto per creare inutile sofferenza»

All’inizio ho cominciato a scrivere incidenti di esecuzione per tutti quelli che non erano in grado di farlo da soli. Ne avrò fatti almeno 200…». Cosa sono? «È l’ istanza per avere ridotta la pena se cambiano le leggi o le condizioni. È cominciato così…». In che senso? (Ride, autoironico) «Mi sono fatto una fama: l’ avvocato del braccio. Sono soddisfazioni».
Poi?
«Poi sono passato ai “permessini”, la richiesta burocraticamente incartata che serve per avere qualsiasi cosa.
Il permessino per la torta, per lo spazzolino… (Altra risata, più amara) «Per le scarpe, il libro, la penna…. Senti ma la sai la più bella? Serve il permessino anche per potersi far scrivere il permessino».
E gli analfabeti come fanno?
«Ecco, bravo: nell’ ora d’ aria gli allungavo un permessino scritto da me, per chiedere, a nome loro, di potersi far fare un permessino, sempre da me».
A quel punto sei diventato sia avvocato che scrivano.
«Metà dei detenuti non ha avvocato.. Ma ti stavo dicendo dell’ ultimo gravosissimo incarico: la stesura delle lettere private».
Difficile?
«Una sofferenza fisica. Il carcere è una vita di messaggi in bottiglia».
Ma perché gravoso?
«È come rivivere tutte queste sofferenze. Te lo confesso: ho avuto problemi con molte lettere. Scrivi questo… scrivi quello…». Mi fai un esempio?
«Una mia amica trans, molto innamorata del suo uomo mi diceva: “Adesso scrivi che lo desidero. Scrivi che lo voglio prendere da dietro e scrivi che voglio tanto metterglielo in culo».
E tu?
«Ho esclamato: Non posso!».
E la trans?
«E perché non potresti, scusa?».
«Le faccio: Sono cattolico».
Ah ah ah… e lei? «Impassibile, ma con una logica inattaccabile dice: “Capisco, tu sei cattolico ma la lettera è la mia”!».
Posso dire solo qui che il giorno in cui Totò Cuffaro è stato condannato ero tra quelli convinti che se lo meritasse. Ero fra quelli indignati per i festeggiamenti per la sentenza di primo grado a base di cannoli. Lo avevo rincorso da inviato nella notte delle comunali di Catania. A cena con Raffaele Lombardo i due avevano decantato il loro pieno di preferenze come un sistema del Totocalcio. Ero rimasto a bocca aperta: avevo scritto tutto. Pensavo che Cuffaro si arrabbiasse, invece mi aveva detto: «Facciamo un’ intervista!?».
Ebbene sì, baciò pure me.
Un vicerè. Era una vita fa. Lo rivedo dieci anni dopo, in una stanza di Rebibbia: un altro uomo. Maturo, serio, diverso.
Trenta chili di meno, rada barba sale e pepe. Ci rivediamo più volte, nel corso di un anno, quando partecipo al corso di giornalismo istituito da Giorgio Poidomani. Manca un anno alla scarcerazione. Mentre usciamo da una cella Totò mi annuncia: «Ho scritto un libro dove il protagonista è un maiale in carcere che si chiama come Peppa Pip. È un libro orwelliano, la storia di Tota Pig. E Tota Pig sono io». Adesso Cuffaro è uscito, il libro ce l’ ho in mano (“L’ uomo è un mendicante che crede di essere un re”, Aliberti), è bellissimo, la copertina è un maialino disegnato da Vauro. E Tota Pig è tornato Totò.
Ti hanno radiato dall’ ordine, come fai a vivere?
«Già, un’ altra follia. Ti riabilitano, ma ti tolgono la possibilità di lavorare. È come dire: Vai e ruba. Io mi limiterò alla prima cosa… Dovevi dare 700 mila euro di danni all’ erario.
«Ho venduto una casa. In qualche modo abbiamo fatto.
Mio figlio, il mio orgoglio, adesso lavora».
Cosa farai con i diritti della Aliberti?
(Ride) «Coltivo un sogno eversivo. Voglio mettere insieme almeno 16mila euro per regalare ai detenuti un nuovo campo da calcetto. Con l’ erbetta sintetica, capisci?
Quando eri dentro giocavi? «Ah ah ah… chi non gioca a pallone in carcere è morto. Anche chi gioca, a dire il vero, per i tanti calcioni che si danno e prendono. Alla fine con la scusa dell’ età, avevo ottenuto il permesso di fare l’ arbitro».
Cornuto?
«Questo ti stupirà: fra tutte le ingiurie che volano dietro le sbarre quella parola è un tabù».
Come te lo spieghi?
«Qui c’ è gente che preferirebbe morire che scoprire un tradimento. La contumacia e l’ assenza producono dolore da cui non c’ è protezione».
La cosa per cui hai sofferto di più?
«L’ impossibilità di dormire con cui combattono tutti. Io da medico mi sono imposto di non assumere i sedativi di cui l’ amministrazione carceraria fa abbondante uso».
Perché?
«Perché volevo rimanere lucido. Alle 23.00 si dovrebbe spegnere tutto. Alle 24.00 il tuo compagno del letto di cella ulula: “Totò, basta co sti tolksciò!!!”».
Cioè i talk show?
«Sì, la politica, una delle malattie che non ti abbandona. All’ una di notte sei chiuso nell’ unico fortino dove in carcere esiste la privacy».
Quale?
«I sei metri cubi della tua branda. L’ unico spazio, cesso e lavandino compresi, che non condividi con nessuno. E lì, sei finalmente solo con te stesso e inseguito dai tuoi demoni. Ti assale l’ angoscia».
Il tuo libro sembra scritto da un saggista novecentesco: rifletti sulla condizione umana, citi Foucault e Sant’ Agostino, Sciascia e Mann… Hai un ghost writer laureato in lettere?
«Non sfottere! Mi sono cibato di libri, come un affamato.
Ne ho letti cinque sei a settimana, ero inseguito da loro. Mi hanno regalato, non so perché, venti copie delle Confessioni».
E che ne hai fatto?
«Distribuite fra le celle: il carcere è pieno di analfabeti che studiano. Anche se non era una lettura esattamente popolare: “Ancora co ‘sto Sant’ Agostino Totò! Ma Grisham non te lo regalano?”»
Sei stato presidente di regione, deputato: allora cosa pensavi del carcere?
«La verità? Me ne fottevo allegramente, come ancora oggi fa la maggior parte della classe dirigente italiana».
Cosa chiederesti al ministro Orlando?
«Di far finire una vergogna: perché un detenuto ha diritto a una sola telefonata a settimana? ».
Dal carcere sei uscito nudo.
«Ho regalato tutto. Tranne le scarpe e i vestiti con cui sono uscito e le quattordicimila lettere che mi hanno mandato».
Le hai tenute tutte?
«Anche le tre – relativamente poche – di insulti».
Tipo?
«Pezzo di merda, muori».
Carina perché la tieni?
«Perché è giusto che qualcuno mi volesse vedere marcire su 13mila che mi hanno incoraggiato. Rende vere le altre».
Il carcere redime?
«Ovviamente no. Il carcere non educa, diseduca. Una enorme struttura organizzata per creare inutile sofferenza».
Un altro esempio.
«Penso agli extracomunitari che non hanno la possibilità di vedere i loro bambini che crescono. Basterebbe Skype».
Dicevi che l’ assenza è la pena più grande.
«Già: sentirsi abbandonato, dimenticato. In questo clima due parole di una lettera del Papa diventano discussioni di intere settimane di cella in cella».
Un leghista duro ti direbbe: sono criminali ben gli sta.
«Oh, sì. C’ è un pezzo di società che ha sbagliato. Ma che merita di essere considerata: altrimenti che differenza c’ è con la tortura?».
Altro promemoria per il ministro Orlando?
«Che vergogna l’ aumento della tassa di soggiorno per chi è dentro. Ti facevano pagare 80 euro al mese, oggi 115. E 50 se li prendono in cauzione».
Hai aiutato il tuo compagno di cella, spacciatore, a ridursi la pena.
«Oh sì! Era stato condannato con la Giovanardi-Fini, demolita dalla Corte Costituzionale: ho fatto incidente di esecuzione anche a lui, e gli hanno levato due anni».
Hai trovato tua moglie in stato di depressione.
«Terribile: avevo intuito che dopo essere venuta tutte le settimane per quattro anni, se non passava doveva esserci qualche problema. Ma mio figlio non ha voluto dire nulla».
E una crisi legata a te proprio ora che esci?
«È convinta che mi riporteranno in galera».
Ma è vero che vai a fare il medico in Africa?
«A marzo, ho già il biglietto fatto per il Burundi. Se posso ci vado anche con lei. È medico, sarebbe utilissima».
Parliamo del tuo amico islamico Jalal.
«Compagno di cella. Dopo la strage del Bataclan abbiamo pregato insieme».
E non gli dava fastidio?
«Macchè. Pensa che spettacolo. Grida dal fondo del braccio: “Ahò che fannòoo?”. Telecronaca dalla cella di fronte “E che devono fa? Preganoooo!”».
La cosa per cui hai sofferto di più?
«Le perquisizioni quando ti buttano tutto all’ aria. Compresa la foto con i miei figli e mia moglie, infilata alla rete, che guardavo quando la notte mi stringevo al cuscino a piangere».
Cuffaro riceve favori, dicevano.
«Non mi perdonerò mai di non aver potuto dare la mano a mio padre mentre moriva.
Mi hanno negato il permesso».
Ti hanno impedito anche di vedere tua madre.
«Le parole della dottoressa Tomasini, magistrato di sorveglianza: “Il colloquio viene negato perché sarebbe svuotato di ogni significato perché le condizioni sono tali che non si potrebbe avere una comune relazione di intenti”».
Sei d’ accordo con il tuo compagno di partito Giovanardi su gay e trans?
«No, gli direi che non ha capito nulla: ma lo pensavo anche prima».
Il compagno di cella che hai amato di più?
«Giuseppe, un siciliano amante della poesia. Quando è uscito mi pareva di aver perso un parente».
C’ è una lezione che vorresti trasmettere a chi leggerà il libro?
«È che lo capisci solo dentro una cella. Il desiderio è tutto, ed è solo nella tua immaginazione. Ma è quello che ti tiene vivo. Quando ti tolgono tutto».
Hai detto: senza la fede non avrei resistito.
«Vero. Ma adesso penso che sia diverso. Ho scoperto la vera essenza del mio cattolicesimo.
Solo in cella ho capito cosa vuol dire essere cattolico: ho capito che di tutte le religioni monoteiste, il mio è l’ unico Dio che è andato in carcere, che ha camminato con il cireneo».
Il Dio dei carcerati perché Dio carcerato.
«Proprio così: un Cristo che è sceso dalla croce per stare anche al fianco dei più disperati, è vicino prima di tutto a quelli che stanno a marcire nelle galere. Cristo è il Dio che viene in cella con te».

Luca Telese
http://www.lucatelese.it

No Comments

Leave a Reply

Your email is never shared.Required fields are marked *