Arte e cultura
di Pietro Lofaro
Per iniziativa di alcuni detenuti del reparto di alta sicurezza, dal primo luglio del 2015, è stato attivato in questo Istituto (CC di Rebibbia) un laboratorio di pittura; il progetto è nato, oltre che con l’intento di mettere in pratica una passione comune, con la finalità di raccogliere fondi da devolvere in beneficenza e autofinanziarsi.
Fin da subito, il laboratorio ha riscosso un discreto interesse da parte della direzione e ci è stato affiancato un educatore che, insieme a noi, ha seguito i progressi e ci ha supportato nelle fasi evolutive.
Parlo non a caso di fasi evolutive. Il carcere, come la maggior parte della nostra società esterna, è formato di persone di diverse estrazioni sociali, culturali e regionali. Il laboratorio ci ha spronato a mettere a disposizione l’uno nell’altro le proprie conoscenze, i proprio vissuti e a trasformarli nel tempo, in disegni su tela. Attraverso la biblioteca di reparto ci siamo documentati sugli artisti, i generi, l’uso dei colori. Chi di noi aveva già una conoscenza sulla pittura e le tecniche pittoriche l’ha condivisa con il resto del gruppo e gli stessi che hanno messo a disposizione il loro bagaglio artistico, ne hanno beneficiato. È nato uno splendido processo creativo.
La difficoltà a reperire materiali, immagini nuove, colori, ci ha quasi obbligato a sperimentare, a ricercare modi differenti di dipingere e presentare una tela così come la si conosce. È stata proprio una condivisione a permettere tutto questo. L’arte è uno strumento di aggregazione, di conoscenza dell’altro, che non può restare confinata all’interno di quattro mura, ma va condivisa, per permettere di rigenerarsi e continuare a creare. A tale scopo, a dicembre 2015, abbiamo avuto il piacere di organizzare la nostra prima mostra, nello stesso laboratorio che fino ad ora ci ha permesso di portare avanti questo progetto. La mostra è stata allestita nel nostro reparto non a caso. Era giusto che le persone che ci hanno appoggiato e seguito fino a quel momento, fossero i primi ad aver contezza dei risultati raggiunti. Volevamo condividerlo con chi, come la direzione, la sorveglianza, l’educatrice, ha investito in noi, dedicando tempo e trovando spazi adatti ai nostri obiettivi. Poi i volontari, i professori, gli stessi detenuti, nostri compagni, che tutti i giorni hanno seguito, anche se da spettatori, i nostri progressi.
A questo punto mi chiedo: se un semplice laboratorio di pittura e tutta la cultura artistica, che di conseguenza si è venuta a creare attorno ad esso, è stata capace di avvicinare e far collaborare nei limiti del possibile detenuti e sorveglianti, operatori e volontari, perché non condividerlo? Non renderlo pubblico? In carcere, per cause che non dipendono sempre dalla nostra volontà, ma dalla burocrazie e dalla necessità, è tutto molto labile, effimero. La cultura creata può trasformarsi in cultura persa. Perché perdere l’occasione di testimoniare come, all’interno di un carcere, nuovi modi di investire il tempo e gli spazi, possano diventare, perché no, una fucina per artisti? E quanto possa essere pedagogico tutto questo?
A parer mio, l’immaginario collettivo ha un’idea incompleta e forse fuorviante del carcere. A causa del limitato accesso e della posa conoscenza di luoghi come questo, si creano degli stereotipi non sempre realistici.
Attraverso la condivisione di cultura, e in questo caso specifico, di cultura artistica, penso sia possibile abbattere alcuni cliché che si allontanano. L’arte è un processo creativo, che in carcere permette a noi di avere un’altra visione del mondo e a voi di farvi un’altra idea di noi, di come la cultura agisca e sia necessaria, forse maggiormente, all’interno di realtà come questa.
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