Un carcere da spiegare a tutti

Un carcere da spiegare a tutti
Luigi Manconi

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Qualche decennio fa, mi capitò di trascorrere sei o
sette mesi in varie carceri a seguito di
scontri di piazza con polizia e fascisti.
Tempo dopo, i miei figli più piccoli – non avevano
ancora 10 anni – appresero incidentalmente
la cosa e ne furono enormemente stupiti. Non troppo
spaventati o turbati: stupiti, sì. La
spiegazione loro fornita non fu brillantissima, anche se resa meno complicata (e comunque
meno mortificante) dal riferimento a vicende politi
che, delle quali tutto ignoravano ma di cui
qualcosa andavano apprendendo. Non avevo a disposizione, come “ausilio didattico” (si dice
così?), il libro “Il carcere spiegato ai ragazzi” scritto da Patrizio Gonnella e Susanna Marietti per
Manifestolibri. Probabilmente le parole dei due autori sarebbero state più adeguate di quelle da
me utilizzate, anche se l’elemento della soggettività paterna messa in gioco qualcosa avrà pur
significato. Ma il problema resta irrisolto e non è
costituito esclusivamente dalla necessità di
“spiegare ai più piccini” il sistema penitenziario.
La questione, piuttosto, è quella l’esistenza del
male e della necessità di accettarlo senza subirlo.
Gonnella e Marietti fanno una scelta di
verità: non presentano ai loro lettori (direi 12-18
anni) il “carcere per ragazzi”, censurato delle
sue dimensioni di abiezione e violenza, ma cercano
– e trovano – le parole per dire tutta la
galera: dalla sua funzione sociale alle sue poche l
uci e alle sue moltissime ombre. Assai
interessante è l’analisi della composizione della popolazione detenuta: il superamento dei
luoghi comuni, in particolare quello che equipara tutti i detenuti a un pericolo sociale, consente
di tracciare una mappa della popolazione detenuta che offre alcune sorprese. Oppure, a scelta,
una granitica conferma di ciò che risulta la più tradizionale ed esatta interpretazione del ruolo
sociale del carcere. Insomma, il carcere è oggi più
che mai ciò che si è voluto che fosse due
secoli fa. Lo strumento più rapido ed efficiente di
regolazione sociale e di disciplinamento
culturale. Il carcere è il luogo della miseria e della spoliazione. Chi sta in carcere, in genere, è
un delinquente, ma è – nella maggioranza dei casi –
un delinquente povero o poverissimo,
privo di risorse materiali e immateriali, destinato
alla marginalità o all’esclusione dal sistema
dei diritti di cittadinanza. Stranieri, tossicomani, senza fissa dimora, malati cronici, affetti da
infermità mentale o da patologia fisica o psichica.
Se questo è vero, è pressoché fatale che
questa folla indistinta e indifesa, non garantita e
non tutelata, subisca processi di abbandono,
mortificazione e veri propri abusi, illegalità, violenze. D’altra parte, il sistema penitenziario è
anche un mondo sconosciuto, dotato di sui codici e
di suoi linguaggi. Gonnella e Marietti ci
aiutano a decifrare questi ultimi: “una lingua strana, da un lato spaccona e smaliziata e
dall’altro sprovveduta e fanciullesca” “chi passa cella per cella con il carrello del cibo (…) è un
‘portavitto’. Quando avrà scontato la pena e sarà alla ricerca di un lavoro non sarà facile per lui
poter scrivere nel curriculum di aver svolto il mestiere che ha svolto. In italiano: il cameriere.”
Attenzione a quel “fanciullesca”: il carcere può es
sere letto come una macchina di regressione
infantile. Quando visitai l’istituto di Grosseto, anni fa, rimasi attonito di fronte a una struttura
di reclusione, ricavata da un edificio del periodo
granducale. Una dimensione tutta
miniaturizzata: la cappella sembrava un confessionale, le celle costringevano uno come me,
non particolarmente alto, a chinare il capo, i corridoi come minuscoli ambulacri di una casa di
bambole. Vidi lì, plasticamente rappresentata, la t
endenza del carcere a “infantilizzare” i suoi
ospiti. Si pensi solo al fatto che, il fondamentale
strumento di comunicazione nei confronti
dell’autorità interna – e insieme uno degli oggett
i più citati – è chiamato, chissà perché,
“domandina”. È il modulo attraverso il quale il det
enuto formula le sue domande: di colloquio
col direttore o di acquisto del cibo. Ma si tratta
solo del segno più visibile di una dimensione
complessiva: la privazione della libertà corrispond
e alla dipendenza dalla libertà (=potere)
altrui: per muoversi, per decidere del proprio temp
o, per comunicare con altri. Com’è proprio
dei bambini (o dei gravemente invalidi). Ciò è ancor più visibile nel rapporto con l’autorità dove
il meccanismo di premio-punizione si esercita all’interno di una relazione puntualmente
configurata sul modello di quella tra adulti e minori. Se tutto ciò fosse vero il seguito di questo
bel libro dovrebbe essere: “il carcere spiegato ai
grandi”.
L’Unità 14 maggio 2010

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