Il bell’articolo di Simonetta Dezi sul sito Ora d’aria dell’Ansa dedicato ai problemi del carcere

“Carcere occasione per vedere mio lavoro da altra prospettiva”

Docente, detenuti più motivati ad apprendere degli studenti

(di Simonetta Dezi) (ANSA) – ROMA, 18 GEN –

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“Insegnare è un mestiere, se lo faccio in carcere o all’università non fa differenza per la professione in sé. Quello che cambia è la risposta degli studenti: tra i detenuti trovo persone più motivate ad apprendere rispetto ai ragazzi dell’ateneo dove tengo le mie lezioni”. Fabio Pierangeli professore di letteratura italiana all’Università di Tor Vergata racconta la sua esperienza di docente a Rebibbia con la meraviglia di chi ha fatto una scoperta importante proprio lì dove meno se lo aspettava e proprio per questo tiene a precisare: “Il carcere è stata l’occasione per vedere il mio lavoro da un’altra prospettiva, ho capito meglio le potenzialità del ruolo del docente”.

Il progetto di dare ai carcerati la possibilità di conseguire una laurea, spiega il professore, è partito dieci anni fa dalla Facoltà di Lettere e Filosofia di “Tor Vergata” con l’intento di promuovere, sostenere e agevolare la formazione universitaria dei detenuti reclusi presso la Casa Circondariale di Rebibbia.

L’obiettivo era un loro reinserimento sociale in un’ottica di piena equiparazione ad ogni altro soggetto di diritto. Si trattava di “Teledi-dattica-Università in Carcere”. La madrina dell’iniziativa è stata Marina Formica docente di storia moderna. Sulla base di alcuni enunciati fondamentali e di certo provocatori (“Lo studio come strumento di libertà”, “Il tempo della reclusione come risorsa da impiegare al meglio”) si svolsero i primi colloqui di orientamento tra i detenuti comuni e i detenuti soggetti a regime di sorveglianza speciale. I primi quattro laureati nell’anno 2014. Nei cinque anni di collaborazione al progetto il professor Pierangeli è venuto in contatto con una quarantina di studenti. Laureati solo 8, dei quali due sono di nuovo in carcere per la recidiva, per uno però la vita è cambiata veramente. “E questo uno dà il senso al lavoro che stiamo portando avanti” sottolinea soddisfatto il professore. Attualmente, ci informa, i laureandi della casa circondariale di Rebibbia sono 34, il gruppo più nutrito è quello dell’alta sicurezza.

“In carcere ho trovato alcuni studenti molto bravi”, prosegue il racconto di Pierangeli, “tutti sono ossequiosi nei confronti del professore e intimiditi dall’esame, tutte condizioni che all’interno dell’università abbiamo in gran parte perso. E’ quello che io chiamo il paradosso del carcere. Sai che entri in un luogo dove gli ospiti hanno commesso delitti contro la società, ma ti ritrovi davanti a persone con un loro codice d’onore che hanno profondo rispetto del tuo ruolo di educatore e questo mi ha colpito profondamente”. “Posso aggiungere che proprio in carcere ho compreso fino in fondo il valore dello studio come portatore di libertà”. Sorride Pierangeli per quello che davvero può sembrare un altro paradosso, ma vuole spiegarlo bene questo passaggio: “C’è una frase che ho apprezzato molto alla fine del film dei Fratelli Taviani “Cesare deve morie” (la pellicola, girata nel 2012 narra la messa in scena del Giulio Cesare di William Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli, ndr), quando il protagonista dice: Da quando ho conosciuto il teatro questa cella è diventata una prigione”.

Certo è una strada tutta in salita, tiene a precisare perché questo percorso non sembri scontato. “Anche quando lo studio va nel migliore dei modi la difficoltà è quella di utilizzare praticamente la laurea, si mette nelle mani di un uomo uno strumento che non sempre è in condizione di utilizzare”. “Il momento più difficile, se non drammatico, è quello del reinserimento nella società. A qualcuno viene data la possibilità di uscire dal carcere in un periodo relativamente breve, istruito e magari avendo discusso una brillante tesi universitaria. Ma ha davanti a sé il rebus di come utilizzare il bagaglio culturale acquisito dietro le sbarre”. La verità, chiosa con un senso di impotenza per non poter fare di più, è che “lo studio non basta, ci vogliono elementi affettivi che sostengano, un pizzico di fortuna nel trovare una persona disponibile a credere che chi ha compiuto un delitto sia realmente in grado di inserirsi nella società, la volontà di non ricadere nel malaffare. Lo studio può rappresentare però il primo fondamentale passo verso il cambiamento”.

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