UNa pagina esemplare di Eraldo Affinati da Compagni segreti

Diario di Normandia, le spiagge dello sbarco

Il maiale trova sempre il suo fango.
Valenti Rasputin, Vivi e ricorda

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NORMANDIA. OMAHA BEACH

Sin da ragazzo lo sbarco di Normandia mi ha suggestionato, anche se non è facile da parte mia, spiegarne il motivo: a sedici anni, quando vidi per la prima volta la costa dove avvenne la più grande operazione aviotrasportata della storia, ebbi l’impressione di sentore, accanto a me, il rumor causato dalle cartucciere e dagli elmetto dei marines in corsa verso i i ripari sotto il fuoco nemico: avevo appena letto il Diario d’Algeria di Vittorio Sereni i cui versi iniziali (“Non sa più nulla, è alto sulle ali / il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna”) mi erano rimasti in testa, ma ero troppo giovane per capire la radice di questa illuminazione lirica. Tanto tempo dopo, durante un altro viaggio francese, le cattedrali di Caen, secolari strutture di solida pietra chiara e scura, mi apparvero fragili come sagome di stoppa. Le stradine del centro sembravano serpeggiare in un fondale d’acquario. Entrai nella cartoleria annessa al Museo della Posta e, osservando una vecchia foto, vidi com’era diventata la città durante l’ultima guerra: un ammasso di macerie.
Caen, al pari di Berlino, Dresda e Hiroshima, illustra il prodigio ortopedico dell’architettura contemporanea: è un luogo in cui si sovrappongono una serie di lastre. Verrebbe quasi voglia di scrostare le pareti degli stabili più antichi per scoprire chissà quali segreti. A volte è sufficiente guardarsi attorno. Nello straordinario Memoriale, edificato sui resti di un bunker nazista, ricordo un reduce americano, accompagnato dalla moglie a rivedere la località della battaglia a cui evidentemente aveva partecipato. Ero troppo timido per rivolgergli la parola: e poi, che cosa gli avrei potuto chiedere?m mi limitai a spiare l’anziana coppia per circa un’ora, all’interno del grande edificio dove sono esposti aerei, navi, plastici e vengono proiettati film rievocativi. Il vecchio soldato, magrissimo ed elegante, indossava i pantaloni di cotone, camicia scura e aveva un foulard legato intorno al collo. Mentre lui osservava le foto degli ex compagni ed esprimeva alla consorte un presumibile turbamento, io ebbi l’impressione di essere suo figlio: non in senso biologico, ma storico. Cionostante, la domanda rimane.
Lo sbarco di Normandia rappresenta uno snodo decisivo per le sorti dell’Europa; ma altre battaglie lo furono alla stessa maniera, forse di più. Penso, ad esempio, allo scontro di carri armati che si verificò nella pianura di Kursk, in Russia, dove nel luglio del 1943 le migliori divisioni corazzate tedesche delle SS Testa di morte, Reich e Guardie di Adolf Hitler, coi Tiger e i cannoni semoventi Ferdinand subirono, guidate dal Feldmaresciallo Walther Model, una sconfitta pesantissima contro i nuovi T34 del generale Pavel Rotmistrov. Un muro di fuoco lasciò sul terreno migliaia di tanks. Il maresciallo Žukov e il rappresentante del Consiglio Militare al Fronte, Nikita Chruščëv, visitando il campo di battaglia, anorché abituati a simili scenari, restarono interdetti. Fu il più grande scontro di carri armati di tutti i tempi, che precluse per sempre ai tedeschi lo sfondamento verso est. Eppure, rispetto alla carica fantasmagorica assunta negli anni da Overlord, non c’è paragone che tenga. Posso provare a spiegarmelo così: in Unione Sovietica erano di fronte due totalitarismi; in Francia gli anglo-americani si battevano in nome della democrazia; questo può aver contato nell’elaborazione dell’immaginario collettivo. Ma il sacrificio dei russi contro il nazismo equivale, se non supera, quello compiuto dagli Alleati.
Ogni volta che sono stato in Normandia mi è parso di essere trascinato in una specie di gorgo da cui era difficile riemergere. Davanti ai miei occhi, insieme ai cartelli segnaletici che illustrano le varie tappe dello sbarco, tremavano come fotogrammi sgranati le fasi temporali del D-Day, scandite in un rintocco d’orologio: poco dopo mezzanotte, alcuni reparti di commandos raggiungono la costa, pronti a guidare le operazioni di sbarco. Subito dopo cominciano gli atterraggi degli alianti nelle pianure del retroterra. Alle tre le navi prendono posizione. Alle quattro i paracadutisti piovono simili a bianchi tulipani a Saint-Mère-Eglise: uno di loro resta sospeso al campanile della cattedrale, come sarà illustrato nel film Il giorno più lungo. Alle cinque le artiglierie delle corazzate del Texas e Arkansas, insieme a quelle dell’incrociatore inglese Glasgow, entrano in azione. Alle sei decollano i bombardieri diretti verso le postazioni costiere. Alle sei e trenta scolla l’ora X per il Grande Uno Rosso (The Big Red One), la prima leggendaria divisione americana che il generale Omar Bradley ebbe non so se l’onore o la sfortuna di guidare all’assalto di Omaha Beach (così chiamata dal nome di una piccola città del Nebraska). I convogli d’assalto uscirono allo scoperto nel cielo grigio di un’alba livida e si avvicinarono a terra nello stantuffo ritmico provocato dalle onde grosse, con i soldati rannicchiati l’uno sull’altro, i fucili levati. Chi urlava, chi pregava, chi stava zitto. Ad attenderli, dentro le fortificazioni, c’erano i tedeschi appena tornati in posizione di tiro, dopo aver trascorso alcune mezz’ore al coperto sotto la furia dei bombardamenti. Questi uomini avevano un’età assai più alta di quella dei marines: dai trentacinque in su. Le migliori unità naziste combattevano sul fronte russo. In Francia erano inviati gli anziani, oppure i feriti. Esisteva una divisione, la 70ª di fanteria, composta di uomini con problemi di stomaco ai quali bisognava somministrare un’alimentazione speciale. Cionondimeno, le unità presenti dimostrarono una perfetta efficienza a Omaha Beach su 32 mezzi anfibi, ne affondarono 30. La quasi totalità degli assaltatori della prima ondata morì senza riuscire a sparare un solo colpo. Caddero cinquemila uomini nello spazio di una sola mattina. E quando l’argine fu spezzato, i tedeschi si ritirarono in ordine, lasciando dietro di loro gruppi di micidiali cecchini appostati nelle rovine, i quali ritardarono l’avanzamento nemico.
Ancora una volta sono arrivato sulla spiaggia, nei pressi del bunker fra le villette dei parigini che vengono in vacanza da queste parti. Alcune case hanno ampie vetrate che si aprono sul giardino all’inglese: i bambini giocano vicino all’altalena, coi secchielli rovesciati, le rastrelliere, i tricicli e i bambolotti. Sono gli stessi che s’entusiasmano visitando i manichini in uniforme nel popco distante museo di Saint-Laurent-sur-Mer: un capannone di ricordi e fotografie. Duecento metri più sotto, imbocco il sentiero verso le piazzole: si può entrare dentro la fortificazione, anche se c’è molto fango e sporcizia. Gli anni della riconciliazione hanno lasciato travi, immondizie, cuori trafitti e barattoli di Coca-Cola. Dalla feritoia il mare sembra un pachiderma sornione con le spalle giganti capaci di registrare, facendo muovere l’acqua, ogni suo movimento. I gabbiani aprono e chiudono le ali in formidabili picchiate. Lo scroscio delle onde allude a una cupa forza della natura che non riguarda solo gli elementi, ma anche l’essere umano. Nel 1944 questi cunicoli erano stati attrezzati come reperti tattici: esistevano le brande per gli ufficiali, le carte topografiche venivano attaccate alle pareti con spille che illustravano i punti difensivi, ogni batteria restava in stretto collegamento l’una con l’altra grazie alla radio: perfino il Führer, se avesse voluto, avrebbe potuto raggiungere via telefono uno di questi bunker sulla Manica. Ma in quei primi giorni di giugno non c’era proprio niente da dire. Rommel era andato in Germania a festeggiare il compleanno della moglie: consultando le carte meteorologiche, aveva ritenuto improbabile un’operazione di mare su grande scala. La vecchia volte di Tobruk stava perdendo qualche colpo.
Nessuno sapeva da quale parte sarebbe venuto il nemico. Nella tana di Rastenburg molti generali, accalcati dietro il grande capo, piantavano il polpastrello su Calais dove qualsiasi osservatore dotato di buon senso, si affrettavano ad aggiungere, poteva apprezzare lo stretto braccio di mare che separava la Francia dall’Inghilterra e trarre le necessarie conseguenze logiche. Hitler, da parte sua, continuava a nutrire profondi dubbi. Non furono pochi, fra i collaboratori che lo circondavano, quelli pronti a dichiarare, dopo la fine della guerra, che il Führer aveva previsto un o sbarco fra Caen e Cherbourg. Alcuni sostengono che ciò fosse dovuto alle informative segrete di cui era in possesso. Altri ipotizzano un ragionamento legato alla disposizione delle truppe alleate sulla costa britannica che i ricognitori tedeschi non smettevano di fornire. Qualcuno accenna al magnetismo del comandante supremo: comunque quando lo sbarco avvenne, Hitler sembrò recedere dalla primaria intuizione, continuando a temere un altro attacco sulla costa est; eco il motivo per cui, nonostante le pressanti sollecitazione che gli rivolsero Rommel e Rundsted, non volle spostare grandi forze corazzate in Normandia: il che gli fece perdere tempo prezioso.
Sulla spiaggia di Omaha Beach ritrovo una parte di me stesso: la prima volta che giunsi qui, ero sullre tracce del soldato Ryan. James Francis Ryan? Sissignore. Raccolsi qualche sasso, come fa con la sabbia ll sergente Horvath, che nel film di Steven Spielberg ha la facci di Tom Sizemore. Proprio sulla ghiaia, girai le spalle all’oceano, nel tentativo di ritrovare il colpo d’occhio degli Alleati in quelle ore cruciali quando, stravolti dalla tensione e dal mal di mare, giunsero in prossimità della riva: le casematte scomparvero, non vidi più niente. La mimetizzazione dei fortini resta perfetta, ancora oggi, mentre ricompio il medesimo gesto. Ma, rispetto a qualche anno fa, i rangers schiacciati come formiche dalle mitragliatrici e dai mortai appena misero piede sulla battigia e i soldati della 325ª divisione che, dopo averli colpiti, furono a loro volta annientati nelle trincee, sono cresciuti dentro di me, quasi fossero retroguardie lasciate dalla generazione cui appartennero a quelle successive per accrescere la responsabilità delle nostre azioni, renderle meno gratuite, quindi più dolorose: ma forse sbaglio e confondo una maggiore coscienza storiografica con il peso dell’età.
Volpe Verde, Cane Bianco, Rosso Facile, e Charlie: così, sulle mappe militari, erano disegnati i settori dove gli anglo-americani avrebbero costruito le prime teste di ponte. Cammino per ore lungo la costa e mi sorprendo nel ritrovare , tra i rottami arrugginiti dei mezzi da sbarco, colonie di molluschi che,, durante la bassa marea, fanno sembrare Overlord una specie di favola fantascientifica di un mondo lontano e perduto. No, ripeto a me stesso: è tutto vero. Questi tronconi di paratie e serbatoi costituivano flottiglie che si chiamavano LCV (Landing craft vehicle): potevano ospitare la fanteria d’assalto e i carri armati leggeri nel breve o lungo tratto di acqua salata fra nave e riva. A bordo delle prime schiere c’erano gli uomini destinati a subire il maggior rischio, mentre nelle seconde file stavano le truppe logistiche, gli ufficiali superiori, i corrispondenti di guerra. Insieme a questi ultimi, attendevano Robert Capa e Ernest Hemingway.
Curiosamente le due star erano legate a doppio filo, non solo per il fatto che stavano trascorrendo una delle giornate più importanti dell’epoca in cui vissero, quanto a causa di un evento accaduto pochi giorni prima: Robert, in procinto di partire per la guerra, aveva dato una festa non lontano da Londra. Ernest, invitato, accettò di buon grado. Quella sera incontrò Mary Welsh, la quale sarebbe stata l’ultima donna della sua avventurosa esistenza. Dopo il party lo scrittore, tornando a casa, subì un incidente d’auto che gli procurò una profonda ferita alla testa. Hemingway non si diede per vinto e, malgrado le condizioni non proprio ottimali, decise di seguire l’amico fotografo partecipando allo sbarco di Normandia a bordo dell’unità “Dorothea L. Dix”. Al ritorno firmò per il “Collier’s” un pezzo intitolato Viaggio verso la vittoria. Con cinquantasette punti di sutura sul cranio ebbe modo di vedere gli uomini che saltavano in aria cme pupazzi di gomma: “Mi richiamò alla mente una scena di Petrushka”, scrisse nel suo magnifico articolo in cui, fra l’altro, ci consegnò una definizione dello sbarco di Omaha Beach rimasta insuperata: “Era stato un attacco frontale in pieno giorno contro una spiaggia minata difesa da tutti gli ostacoli che l’ingegnosità militare poteva escogitare”.
Quando a Robert Capa, non è esagerato ritenere che la percezione visiva che oggi abbiamo dello sbarco di Normandia discende in linea diretta dalle fotografie che egli riuscì a scattare sfidando la sorte sul bagnasciuga, tra i frangiflutti intorno ai quali i soldati cercavano riparo. Il grigio del cielo e dell’acqua le macchie nere delle navi all’orizzonte, la paura negli occhi degli eroi, il silenzio che succede all’urlo, i mitra dei morti come rottami preistorici nel cuore di un secolo malato: tutto questo lo dobbiamo a lui che, come sappiamo, morì dieci anni dopo nel corso di un conflitto indocinese.
Quando dalla spiaggia risalgo verso la spianata, le 9386 croci sul prato nel cimitero di Colleville-sur-Mer, in un territorio amministrato direttamente dal governo degli Stati Uniti, quasi mi accecano nel clangore delle loro linee geometriche che dettano agli assorti visitatori la preghiera dei nomi propri: Adams Harvev, Adkins Wilfred, Aidala Salvatore, Alexander Nelson, Allee Gordon, Arrott William, Augustin Charles… Inevitabile affiancare a queste croci bianche quelle nere, riunite a piccoli gruppi, come un dolmen novecentesco, del cimitero di La Cambe, nei pressi di Insigny-sur-Mer, dove riposano i Lehrmann, i Koch, i Lindner, che prestarono servizio nell’esercito germanico. Ein Deutscher Soldat: mentre leggo questa scritta, torna ad affiorare nella mia mente lo sguardo caustico che Karl von Clausewitz usava riservare alla guerra negando che essa potesse avere un valore assoluto e definitivo per gli Stati coinvolti, certo si tratta di male transitorio, al quale i colloqui diplomatici potrebbero apportare un futuro rimedio. Ma i soldati caduti non conosceranno le eventuali ricuciture che verranno fatte sui loro cadaveri: le occhiaie degli scheletri resteranno buchi vuoti percorsi da insetti.
Tutta la Normandia è diventata lo straordinario specchio retrospettivo di Overlord: le indicazioni stradali orientano i turisti verso necropoli, statue, cannoni. Il museo di Bayeux, se non fosse per i due carri armati piazzati all’entrata, sembrerebbe una chiesa avveniristica posta al centro del parco: dentro c’è di tutto, dal basco di Montgomery (i cui antenati, per un strano gioco del destino, parteciparono nel 966 con Guglielmo il Conquistatore, Duca di Normandia, all’invasione dell’Inghilterra) alle bandiere dei reparti, dalle razioni di combattimento alle uniformi militari; ma quello che più mi colpisce è il telegramma ricevuto dalla signora Nellis il 21 agosto 1944. un foglio giallo con le righe bianche in cui si legge: “The secretary of war desires me to express his deep regret that your son private Raymond J. Nellis was killed in action on thirty july in France. Letter follows”. I soldati, recita la didascalia, avevano tutti vent’anni. Questi fogli attraversavano a migliaia l’oceano, sistemati a pacchi nella stiva delle navi postali: per chi li riceveva, erano simili a bombe spirituali. Oggi Bayeux è una bella cittadina normanna coi mercati, le chiese e le tipiche abitazioni della regione cui appartiene: percorrendo rue Saint Loup, dietro al Museo, si giunge fino alla piazza principale dove il 14 luglio il generale Charles De Gaulle, su invito di Winston Churchill, ritrovò la sua Francia. Sembra di rivederlo, alto,, dinoccolato, col chepì d’ordinanza, mentre i bambini festanti gli fanno ala. Ma gli americani non dimenticarono l’offensivo proclama da lui pronunciato m la sera del 6 giugno, quando, accecato dall’orgoglio patriottico, evitò di menzionare le giovani vite dell’esercito alleato cadute sulle spiagge normanne.
Ci si può smarrire fra Creully, dove c’era il quartier generale della Bbc nei giorni successivi allo sbarco, e Arromanches, uno dei porti artificiali meglio conservati fra tutti quelli che gli Alleati improntarono per garantire il necessario sostegno logistico alla fanteria d’assalto. Era stata un’idea di Churchill, quella di creare dal nulla punti d’appoggio e protezione a cento metri dalla costa. Sull’altura che domina il porto c’è una specie di di hangar dove viene proiettata ininterrottamente la rievocazione cinematografica in multischermo dello sbarco: gli spettatori, al centro della sala, sono investiti da suoni e immagini che li obbligano a girare la testa in continuazione per seguire la ricostruzione bellica. Si esce dallo spettacolo frastornati e anche un po’ tristi. Chi lo desidera, prosegue verso Cherbourg, la cui liberazione, il 27 giugno, determinò la svolta della campagna di Francia.
Negli incroci stradali le automobili parcheggiano sotto l’insegna: Objectif un port. I conducenti hanno sulle ginocchia la carta geografica dov’è tracciato l’itinerario. Osservo con attenzione e curiosità questi uomini: alcuni sono miei coetanei che, invece di andare in vacanza al mare o in montagna, scelgono di ripercorrere i sentieri della Seconda guerra mondiale. Vorrei stringere la mano a tutti loro perché rappresentano una ragione di speranza nel cuore della nuova Europa: se non capisci quali sono le tue radici, come puoi progettare un futuro comune?
Cherbourg è sempre stata una grandiosa fortezza difensiva sul mare: il suo possesso era indispensabile agli anglo-americani che, dopo aver occupato il suolo francese, avevano bisogno di un vero porto con acque profonde: soltanto così avrebbero potuto far sbarcare vagoni, treni, materiali pesanti. Le truppe leggere aprono i varchi, ma devono essere sostenute da adeguate strutture di supporto. I paracadutisti dell’82ª Airborne avevano tagliato i collegamenti ferroviari con Parigi isolando l’armata tedesca all’interno del vecchio Roule, un forte secolare destinato a cadere sotto la pressione alleata, anche se Hitler aveva ordinato di esaurire i caricatori prima di alzare bandiera bianca. Il comando del fronte si trovava in un posto di combattimento sotterraneo a Octeville, davanti all’Arsenale. Il generale Stegmann non si illudeva di poter resistere troppo a lungo: sua intenzione era quella di distruggere il porto prima di venire catturato. Non ci riuscì e quando gli americani azionarono le perforatrici per farlo saltare in aria, s’arrese al generale Collins che, dietro consiglio del Bradley, lo trascinò via su una jeep dandogli solo una razione K.
C’è una panchina a Port Chantereyne, nei moli della piccola rada di Cherbourg, dove ho sostato a riflettere sullo sbarco di Normandia. È questo uno dei tanti finisterre occidentali che s’allungano come indici e mignoli del Vecchio Continente sull’oceano Atlantico: uno dei luoghi in cui la presenza fantasmatica degli Stati Uniti d’America sembra aver lasciato segni indelebili. La zona di mare antistante, dopo lo sgombero germanico, venne sminata in poche settimane. La Royal Navy collegò l’isola di Wight a Cherbourg con una celebre pipeline, soprannominata Pluto, che garantì un continuo rifornimento di carburante alla gigantesca armata che si stava schierando contro la Germania. Oggi questo porto, la più grande rada artificiale del mondo, assomiglia a quello di San Diego, sull’oceano Pacifico: i bastimenti ti passano davanti agli occhi come strampalate invenzioni tecniche; i colori dei containers, rossi, arancioni, gialli, blu, con misteriose sigle di vernice bianca dipinte sulle superfici metalliche, aprono e chiudono splendidi ventagli mobili sulla linea dell’orizzonte; mentre alle mie spalle speciali strutture di carico sistemano sui camion le merci giunte dal mare o provvedono a scaricarle sulle banchine. E così nel primo pomeriggio di un qualsiasi giorno feriale, può accaderti di rubricare questa formidabile alacrità attivistica nei registri del quaderno di pace, prima di accorgerti che la medesima energia umana, seppure sotto mentite spoglie, contribuì a determinare gli orrori che avevi trascritto dai bollettini di guerra.

(2002)

Eraldo Affinati

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