Si legge di un fiato l’ultimo libro di Aurelio Picca, Arsenale di Roma distrutta, Einaudi, un filo teso, anche in modo stucchevole (nonostante l’ardimento linguistico), sul passato e alcune ricostruzioni memorabili di episodi di cronaca nera della capitale.

La nostalgia di Aurelio Picca di quando Roma era plebea e non miserabile

Pensai,  senza dirlo  ancora a me stesso, che i criminali e gli artisti sono una cosa sola. Feroci, spietati, nudi, estremi, senza paura, pronti a morire per cercare l’assoluto.

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Quando la vidi non sapevo fosse Roma. Era domenica e nell’aria non volava un grammo di polvere. L’autobus ci lasciò sulla via Appia, a cinquanta metri da via del Quadraro. Sulla destra l’acquedotto proseguiva obliquo: un lungo treno di catrame, un pezzo di legno carbonizzato.
La luce del mattino timbrava ogni oggetto. Anche l’asfalto era una pista. Ma nessuna macchina o moto la percorreva. Il cielo, molto alto, sono sicuro che aveva abbandonato con gentilezza l’alba e andava a rincorrere il sole di giugno.
Con la tata, o serva, alla quale avevano ucciso a tradimento il marito di notte in un portone di San Lorenzo, percorrevo a piedi via del Quadraro per attraversare piazza San Giovanni Bosco e poi il viale con i palazzi — scatoloni di cartone imbandierati di bucato. Erano color pelliccia di volpe. Dalle finestre scendevano perfette decine di lenzuola bianche. Una festa di luce.
La basilica non l’avevo neppure notata. Dopo molti anni mi sarebbe apparsa come una centrale nucleare, con la cupola identica a quella di Borgo Sabotino: spettrale di notte, ambigua e ammonitrice di giorno.

 

 

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