Lazzaro, insomma, non risorge; o risorge a modo suo, andandosene per sempre.

–G. Testori

Pietà allo stato impuro

Le opere di Romanino, a confronto con il pregiatissimo coevo Rinascimento, apparivano a Testori «cagnare d’osteria», atte a rispondere alla religiosità – tragica – del vivere e del morire. Il dolore, preso dal pittore a oggetto del poetare, non riusciva a darsi una qualunque pietà stilistica perché era esso stesso pietà. Il mondo di fronte a Lazzaro non è stupito ma stanco e Lazzaro, cencioso sdegnato, è un esempio di rifiuto della qualità dello stile, che, per Romanino, voleva dire adesione alla mendicità di una vita rassegnata al destino.

Perché, in effetti, così com’è, [il dipinto della Resurrezione di Lazzaro], pare piuttosto l’inutile tentativo, operato dal persuasore o guaritore di paese, per convincere un povero «strasàt» a restare in vita; uno «strasàt» che, invece, ha fermamente deciso di farla finita, con la vita, scivolando dentro il tombino di qualche fognatura… Alla voce, ai richiami, è salito ancora una volta su; e guarda la malformazione di tutto quanto lo circonda; il mondo? Eccolo lì, cos’è il mondo: quei corpi affamati e sbilenchi, quelle schiene stortate e stortolente, quelle mani e quei piedi minati e come sfatti dall’artrosi, quelle facce di pena, di dolore, di miseria e di fame […] E cosa gli resta, davanti a questo spettacolo, se non tornarsene giù? Lazzaro, insomma, non risorge; o risorge a modo suo, andandosene per sempre. Tant’è che i gesti, attorno, sembrano più di commiserazione sciente e di sciente pietà che non di miracolato stupore; chi poi si tura il naso lo fa per il fetore che viene, non già da una tomba, bensì, ripeto, da un tombino…      [G. Testori, Romanino e Moretto alla Cappella del Sacramento]

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