Per me la morte è il massimo dell’epicità e del mito

Per Wouter

“Per me la morte è il massimo dell’epicità e del mito”, scrive Pasolini, aggiungendo, poco dopo, anche il termine “sacra”. Non pensavo di aprire con queste parole delle piccole note sulla bicicletta vista da grandi scrittori, eppure la caduta rovinosa e mortale di Wouter Weylandt,  giovane campione belga di 26 anni, il 9 maggio nei pressi di Rapallo me le ha ricordate, con forza e commozione. Improvvisa e sacra, nel pieno della bellezza, della gioventù quella morte. Probabilmente si è distratto un istante, un solo istante (quello che può dare a volte la vittoria più attesa, in modo imprevisto), ha urtato a 80 all’ora prima il guardrail e poi il muro, ed è volato via, come un angelo, sull’asfalto, venti metri più in là. “Quando succedono queste tragedie, – ha detto Felice Gimondi, – la corsa non conta più niente”. Ma è nel destino della grande carovana dei Grandi Giri nazionali di dover continuare… Ma è proprio la cosa giusta?  Nei Dialoghi con Leucò di Pavese (la proposta di leggere nel mito la realtà di oggi e di sempre) molte pagine sono dedicate ai giovani, ai loro giochi, alle loro battaglie (per certi versi lo sport di oggi): la morte di chi esprime una voglia di vivere, una potenza fisica di giovinezza eccezionale desta ancora di più una domanda, è ancora più dolorosa e misteriosa, anche se è, leopardianamente, cara agli dei e preferibile ad una monotana rassegnazione. Così nel Fiore (Apollo e Giacinto) ne I due (Achille e Patroclo), e in questo passaggio de I ciechi, dove parla Tiresia, il cieco indovino del mito greco, con un andamento tragico, fatalista, senza l’accento di una qualche speranza:

Prendi un ragazzo che si bagna nell’Asopo. E’ un mattino d’estate. Il ragazzo esce dall’acqua, ci ritorna felice, si tuffa e rituffa. Gli prende male e annega. Che cosa c’entrano gli dèi? Dovrà attribuire agli dèi la sua fine o al piacere goduto? Né l’uno né l’altro. E’ accaduto qualcosa – che non è bene nè male, qualcosa che non ha nome – gli daranno poi un nome gli dei (Cesare Pavese, I ciechi, Dialoghi con Leucò).

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