Tra l’urlato traguardo del dio di Roserio e la via crucis di Gino Riboldi

Che è successo Milano?

“Il nome sembra d’allora: Riboldi Gino. Ma il protagonista sta salendo la ‘via crucis’ della tutenkamonica stazione per farsi, nella deserta latrina, l’ultima overdose: stramazzerà. Che è successo tra la Vigor del ‘dio di Roserio’ dove, pur rischiando l’assassinio, Pessina Dante tendeva all’urlato traguardo e lo svuotamento, l’abdicazione, anzi, di quest’altro che non ha più società, sportive  o meno, che lo riguardino, più traguardi di cui tendere, più Laurette Masiero, più Carletti Dapporto, più nemmeno le rivoluzioni di maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, bensì la morte, cui correre incontro come alla sola amante, alla sola pace?”

Tra Dante Pessina, l’eroe del ciclismo degli anni Cinquanta, che nell’esordio strabiliante di Testori spinge il gregario più veloce di lui in una rovinosa caduta e Riboldi Gino di In exitu, passa l’offesa di una solitudine atroce e senza speranza che allo spietato agonismo de Il dio di Roserio sostituisce la tragedia della morte per droga di trent’anni dopo. Ma “intanto che Riboldi Gino, nella latrina della Centrale, rovescia le sue pupille nella tazza del water, implorando il nome di Dio e della madre. E, così facendo, avrà fatto per Milano più di tutti noi”.

Il parlare di Milano di questi giorni ci distoglie ancora dal ciclismo, per annotare la sorprendente attualità (non solo per la città lombarda) del brano di Testori, “Corriere della sera” 9 marzo 1982, ripubblicato in Appendice a Il dio di Roserio nella edizione Oscar Mondadori:

 Non tutti siamo Riboldi. E che, solitamente, siamo peggio. Disfatti (ancorché in apparenza costrutti) dall’ignavia; e dall’indifferenza. Che è giusto l’opposto del cuore, lì, nel centro del cuore. E’, anzi, il cuore gettato ai meccanici cani dell’ingranaggio.

Milano geme. Sotto le parvenze delle feste; anzi della festa. Bisogna che i milanesi non pensino. A che? Può darsi che l’ingranaggio lasci o domandi (per poter esistere come tale) che la festa, anzi, la festa continui. Può darsi che, per questo (e altro), la festa debba continuare a impazzire; non di felicità (che sarebbe, che è umanissimo, bisogno); ma della mascherata indifferenza; della camuffata solitudine, del benessere e della giustizia intesi come atti d’individual tornaconto. Milano forse è chiamata ad essere vetrino della crisi e della cupa marmellata in cui si è ridotto il paese.

[…]

Altare e municipio. Chiesa e comune. Carità e assistenza. Chi ha separato? Chi ha diviso? Chi ha posto i diktat? La libertà della Milano d’un tempo, quella di Ambrogio, quella di Bonvesin, quella di Carlo, quella del Parini, quella del Manzoni, quella del Verdi, quella del Risorgimento, quella del primo socialismo reale (e umano), quella della liberazione: ha quella libertà riscontro nella abissale pozza o pantano dell’indifferenza, nella presente abissale pozza o pantano d’arbitrio presente, di quell’indifferenza e di quell’arbitrio che non accontentano più nessuno, ma tutti ci rendono più fedifraghi e ingordi?      (Giovanni Testori, La mia Milano, “Corriere della sera” 9 marzo 1982, continua nel prossimo post)

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