Emanuele Trevi e la cosa più preziosa

Parigi

Come ricomincia la vita a Parigi? Da un punto di vista molto generale, si può dire che ricomincia come fa ogni settimana a Kabul o a Bagdad, come faceva ad Algeri negli anni Novanta, come ha fatto a New York nell’autunno del 2001. Ma come ogni corpo ferito ha la sua particolare capacità di «resilienza», come la chiamano i medici, lo stesso si può dire delle città, che sono la cosa che più assomiglia ai nostri corpi. Sono solo più forti e più longeve, e le necessità della vita subentrano più rapidamente allo choc subìto.

Tutti collaborano senza nemmeno saperlo: vedi l’insegna di un bar rimasto aperto, entri ed ordini un caffè, e una minuscola parte del meccanismo si rimette in moto. Osservare questo miracolo fatto di un’infinità di minuscoli gesti è una lezione profonda e commovente. Credo che la migliore maniera di apprenderla sia quella di camminare senza risparmio, fino a quando fanno male i piedi. Jacques Prévert diceva che i segreti di una città li conosce solo chi le affida i suoi passi senza contarli. Ma i segreti di una città non sono altro che i segreti del cuore umano.
Dalla maledetta notte di venerdì, ho passato la maggior parte del mio tempo camminando per Parigi. Ho cominciato, come tutti coloro che per un motivo o per l’altro si trovavano in centro, all’unico scopo di tornare a casa sano e salvo. Quando tutti gli smartphone hanno iniziato a diffondere all’unisono il terrore, ero nella metropolitana, e ho considerato saggio uscire al più presto di lì. Dopo mezz’ora, già si parlava della varietà degli attentati e dei loro obiettivi. Anche di questa circostanza tecnologica approfittano queste turpi carogne, questi registi dell’inferno: la simultaneità e la velocità delle informazioni diffondono a macchia d’olio la paura, e la rinnovano continuamente. In ogni individuo minimamente sospetto, anche nel barbone ignaro di tutto, sei costretto a sospettare il kamikaze pronto ad usare la sua cintura di esplosivo.

Via via che mi avvicinavo a casa, il silenzio aumentava, carico d’attesa e sfiducia. Una volta in salvo, ho cominciato a guardare dalla finestra. Dal sesto piano, dominavo un grande incrocio nel cuore di Montmartre. Passa mezz’ora, passa un’ora, e non riesco a vedere nemmeno una persona. Rapidamente si era diffusa la raccomandazione del Comune di Parigi: non uscire di casa se non per motivi di estrema gravità. Già, ma quali sono questi motivi? Non è forse la vita normale, e le sue infime esigenze, il più grave dei motivi? Questo ho pensato quando da un angolo è spuntato un signore anziano, con basco e bastone, un barboncino al guinzaglio. Ho immaginato un dialogo, la moglie che tenta di dissuaderlo, non hai sentito cosa ha detto la tv?, e lui che le risponde dovrà pure far pipì poverino, non è mica colpa sua. E mi sono venute in mente quelle immagini sull’inizio della vita che ci facevano vedere a scuola all’ora di biologia: un primo organismo composto di poche cellule che fluttua nelle correnti del mare.

Sabato mattina è stato il momento più brutto, non dal punto di vista degli eventi, ovviamente, ma da quello dei riflessi interiori, delle emozioni. Nessun brutto sogno fatto nel frattempo poteva uguagliare la verità. Parigi era coperta da una coltre uniforme di nuvole, che producono quella splendida luce perlacea che ha il potere di rendere tutte le cose singolarmente nitide, per così dire all’apice della propria forma. Così come è giusto che la vita riprenda, è giusto che ci siano delle fasi di ristagno, in cui la tristezza vela gli occhi e la volontà. Tutti i processi psicologici che vanno in una sola direzione senza trovare ostacoli sono finti, equivalgono a nascondere sotto il tappeto una polvere che ritornerà fuori. Dopo pranzo, un’apparenza di normalità si era instaurata al posto dell’inerzia del mattino, ma la sensazione comune era quella di una giornata lentissima, interminabile. Ieri, domenica, il cielo era azzurro e splendeva un sole primaverile. Migliaia di ragazzi hanno iniziato a confluire verso Place de la République, con fiori, candele, fotografie, manifesti. Poi la piazza si è svuotata all’improvviso, si sono uditi spari, la gente si rifugiava nei bar e nei cortili fra il Marais e la Senna.

Forse è giusto che i politici promettano rapide vittorie e vendette inesorabili. Ho sentito anche qualcuno affermare in tv che alla fine «vincerà la musica». Se fossi un politico, cercherei anch’io di tirare fuori da me stesso prospettive rassicuranti. Ci mancherebbe altro. Personalmente, però, non sono affatto sicuro che le cose andranno a finire come desideriamo, e che saremo in grado di difendere tutto ciò che amiamo. Dipende tutto dal nostro coraggio? Dalla sorte? Forse però possiamo incominciare a rafforzarci smettendo di pensare che la vita continui dopo le catastrofi. Perché le catastrofi possono essere lunghe. E la cosa più preziosa, il vero filo d’Arianna a cui bisogna rimanere attaccati, è che la vita continua anche durante le catastrofi.
Emanuele Trevi, corriere della sera 16 novembre 2015 (modifica il 16 novembre 2015 | 07:28)

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