Ecco un brano della mia introduzione

Il cimitero cinese, Ritorno a Cassino, l’inedito I partigiani: la trilogia di Pomilio sulla seconda guerra mondiale in libreria per Studium

Il cimitero cinese si rivela uno dei racconti più significativi del Novecento, per la capacità di raccogliere, con innegabile talento sinfonico, tra paesaggio interiore ed esteriore, i contenuti tragici dello sradicamento epocale, illuminandoli con una tenue luce di speranza, riposta nel fiorire dell’amore tra i due giovani protagonisti, una tedesca e un italiano, ben coscienti dell’odio che li circonda, in quell’immediato dopoguerra, nelle regioni sconvolte dal conflitto.


I morti chiedono a chi resta un perché, scriveva Cesare Pavese, ne La casa in collina, qualche anno prima, parlando di ogni guerra come guerra civile: “In non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero ” .
Nonostante l’insorgere di un delicato sentimento di pietas per il soldato tedesco ferito e, forse, l’ipotesi di una storia d’amore con la ragazza italiana, ne I partigiani la questione posta da Pavese, in un’alba livida e mortuaria, di fronte all’atroce “spettacolo” dei cadaveri partigiani rimasti appesi senza sepoltura, paralizza ogni ipotesi di “pacificazione”: “provò uno sgomento senza limiti per quella tempesta ignota che travolgeva lui e coloro che lo circondavano e gli disseccava ogni affetto”.
Il racconto, costretto a descrivere, nel 1945, l’impossibilità dell’eros di favorire una riconciliazione, rimane inedito e successivamente (si veda il saggio di Francucci) viene indicato da Pomilio come diretto antecedente de Il cimitero cinese.
Lo “sgomento senza limiti” , “la disseccazione degli affetti” straziano il cuore dei due giovani protagonisti in quella che doveva essere una gita propiziatoria all’amore nelle meravigliose spiagge della Normandia. Si rivela, invece, un transito nel dolore: chi e cosa può ridare l’innocenza? Quando finirà tutto questo, quando sarà possibile amarsi senza sentire, come un macigno nell’anima, la colpa di appartenere a quei popoli che hanno partorito il nazismo e il fascismo? Perché non siamo nati tutti nello stesso paese, perché si è perduto nel sangue sparso con atrocità l’eden della pace e della fratellanza?
Non sottraendosi alle domande di Pavese e alla terribile notazione di paralisi di qualsiasi affetto, Pomilio, nel Cimitero cinese, con un lungo e sofferto cammino, rovescia la “visione” finale dei Partigiani, attraverso un gesto d’amore, provocato dall’identico atto di aver “visto”, dentro le tracce indelebili della distruzione, “qualcosa” di segno opposto. Una parola di pietas presentita durante la visita in quei luoghi, sei anni dopo la stesura dei Partigiani. Ancora nel 1951, però, non si sente pronto a capovolgere la visione paralizzante dell’odio con gesti di riconciliazione: solo oggi, grazie allo splendido lavoro di Federico Francucci sulle carte preparatorie del Cimitero cinese, possiamo osservare il sofferto cammino, il tormento interiore e stilistico, che conduce Pomilio fino allo scioglimento finale (il bacio liberatorio), più volte giudicato insufficiente di fronte alla tragedia.

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