Sono i primi anni Quaranta del ‘800. Giovanni Bosco, appena fatto sacerdote, si reca in carcere, con don Cafasso, chiamato dai torinesi il prete della forca, perché scende nelle prigioni a consolare i detenuti, perfino i condannati a morte, accompagnandoli sulla carretta fino al luogo dell’esecuzione. Le frasi sono tratte dalla vita di Don Bosco di Teresio Bosco.

Don Bosco accanto ai ragazzi detenuti:- Perché quel prete piange?- domanda qualcuno.- Perché ci vuole bene.

Venne così a conoscere le loro povere storie; il loro avvilimento, la rabbia che a volte li rendeva feroci. Il delitto più comune era che avevano rubato….
La società non aveva saputo far niente per loro, e li rinchiudeva là dentro.

“Quello che più mi impressionava – scrive don Bosco- era che molti, quando uscivano, erano decisi a fare una vita diversa, migliore”. Magari solo per paura della prigione “Ma dopo poco tempo finivano di nuovo lì”.
Cercò di capirne la causa e concluse”Perché sono abbandonati a se stessi”.

“Man mano che facevo loro sentire la dignità dell’uomo – scrive- provavano un piacere nel cuore, risolvevano di farsi più buoni”. Ma sovente, quando torna, tutto è distrutto. I volti sono tornati duri, le voci sarcastiche sibilano bestemmie. Don Bosco non sempre riesce a vincere l’avvilimento. Un giorno scoppia a piangere. C’è un attimo di incertezza.
-Perché quel prete piange?- domanda qualcuno.
-Perché ci vuole bene. Anche mia madre piangerebbe se mi vedesse qui dentro.

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