Scrive Paul Valèry «Quel che nel costruire mi rende così lento,così temporeggiatore, è la strana mania di voler iniziare sempre dall’inizio».

L’incipit di Màrquez

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica cos truito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.

Sicuramente uno degli incipit più belli della narrativa contemporanea questo di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Màrquez. L’entrata evocativa in un universo reale e magico, unico. Che si può ancora indicare con un dito per quanto rappresenti la possibilità intatta, l’invenzione pure capace di realtà, corpo, anima, fantasia, magiche presenze, assoluti.
L’ incipit di un romanzo viene paragonato al Big Bang, ingresso in un mondo nuovo, universo della scrittura spesso alternativo alla realtà. Lo scrittore, in generale, ne avverte la fascinazione, le implicazioni strutturali, ma anche la stretta connessione ad una idea di inizialità, di una volontà di rinnovarsi, andando incontro alle proprie origini.

Il libro appare non dissimile da quel punto originario informe di cui parlano gli astronomi: sappiamo che racchiude in sé una quantità immensa di energie informative ma esse restano compresse, sepolte nel grumo delle pagine inviolate. Il big-bang, l’esplosione semantica che genera e avvia il cosmo romanzesco e ci consente di individuarne i caratteri, di intuirne panorami e sviluppi futuri, avviene non appena leggiamo le prime dieci o venti righe; lo stato delle nostre conoscenze, nel breve tempo che c’è occorso per farlo, si è ampliato in misura portentosa: la prima pagina non ci fa conoscere, ovviamente, tutto il romanzo, ma apre d’innanzi a noi molti dei sentieri mentali lungo il cui tracciato orienteremo la nostra lettura. L’incipit luogo per eccellenza liturgico dell’arte narrativa, è lo schiudersi di una forma complessa i cui contorni futuri si dilateranno a tutti i territori della nostra esperienza e della nostra sensibilità; gli indizi di cui è folto (indizi manifesti talvolta, e talvolta solo sussurrati, aspersi nel germe obliquo delle allusioni e nei vapori della sostanza stilistica) chiedono il nostro riconoscimento, orientando il nostro viaggio attraverso il corso dell’opera e inclinano la nostra attitudine fruitiva. L’incipit riduce, dunque, l’infinita ambiguità potenziale del romanzo attivando in noi la propedeutica disponibilità a intuirne la collocazione entro un repertorio assai vasto e differenziato di esperienze conoscitive. […]
(Bruno Traversetti – Stefano Andreani, Incipit. Le tecniche dell’esordio del romanzo europeo, Torino, Eri, 1988, pp. 11-19)

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