Palomar di Italo Calvino: personaggio del nostro tempo? Esce nel 1983, trent’anni più uno.

Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante

«“Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, – pensa Palomar – e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine”. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore»

Palomar, uomo tardivo, uomo distratto, piccolo uomo in ricerca. L’ultimo personaggio di Italo Calvino tenta di risalire alle grandi questioni cominciando dal piccolo, che però anche esso si rivela formato da infiniti fenomeni. Palomar conosce attraverso ipotesi contradditorie. A volte questo crea in lui impazienza, a volte invece l’apertura ad una possibilità. Calvino definisce il suo personaggio: «Un uomo si mette in marcia per raggiungere passo passo, la saggezza. Non è ancora arrivato». Scansione di un tempo diverso che cerca un’armonia e che viene travolto dalla velocità scriteriata della società. Tale scontro dà vita a situazioni clownesche, esilaranti e delicate. Il piccolo uomo si muove come Chaplin tra gli ingranaggi ruotanti e cigolanti delle macchine dei Tempi moderni o meglio come Buster Keaton, bambino candido dalla faccia triste e nostalgica che guarda allontanarsi l’oggetto della sua fantasia e dei suoi giochi. La sua curiosità comunque è una arma assai resistente. Si rimette in marcia pur sapendo che la strada della conoscenza si allunga via, via.
Palomar che vuole evitare le sensazioni vaghe e anonime comincia con il guardare una piccola onda Il fluire di un’onda è pieno di «azioni».
«Il signor Palomar vede spuntare un’onda in lontananza, crescere, avvicinarsi, cambiare di forma e di colore, avvolgersi su se stessa, rompersi, svanire, rifluire».

Impossibile definire il movimento casuale. Così come è impossibile definire i mille volti e le migliaia di linee che l’onda crea scivolando sulla sabbia nel momento di morire, prima di ricominciare il suo ciclo, perdersi nelle acque per poi forse ritornare. Palomar è tutto intento quando ecco che il vento cambia direzione e forza e distrugge il castello cartaceo dei suoi pensieri. Ancora una volta la realtà è più veloce e impetuosa del pensiero dell’uomo. E lui, l’uomo, non sa nascondere il disappunto e la rabbia, il peso di essere stato punito nel suo desiderio orgoglioso di conoscere. «Basterebbe non perdere la pazienza», dice alfine Palomar, bisogna mantenere lo sguardo puro, accettare che la realtà scavalchi sempre il pensiero, accettare di essere creature. Senza incontrare il segreto delle cose – «solo se egli riesce a tener presenti tutti gli aspetti insieme» – è difficilissimo avere la virtù di questa pazienza.
Dal piccolo frammento di mondo si passa alla contemplazione della luna, oggetto privilegiato della fantasia dei poeti, come in «La contemplazione delle stelle».
È uno strano omino quello che discende da grandi saggi e scienziati e che rimane timido e goffo, incapace di governare gli oggetti anche i più semplici:
«Quando c’è una bella notte stellata, il signor Palomar dice – Devo andare a guardare le stelle – Dice proprio devo, – perché odia gli sprechi e pensa che non sia giusto sprecare tutta quella quantità di stelle che gli viene messa a disposizione».
Le complicazioni «pratiche» al devo sono però enormi. Qui Calvino raggiunge un vertice di bravura descrivendo il suo personaggio che si ingarbuglia con gli occhiali e le mappe, le lampadine elettriche, e il buio. Calvino volutamente rende goffo e dolce il suo personaggio che proprio in questo frammento assomiglia enormemente a Buster Keaton (la foto del quale è ancora bene in vista in casa Calvino a piazza di Campo Marzio in Roma).
La seconda sezione si intitola: «Palomar in città».
Anche qui non troviamo uomini, gli altri, semmai una folla, anonima di gente in coda.
Palomar descrive la città da angoli di visuale sconosciuti e nuovi. Dal terrazzo contempla i tetti e i giochi di animali come il geco e le tartarughe, poi si sofferma a guardare l’invasione degli stormi nel cielo di Roma.
Mentre l’immagine di Parigi è quella di gente che fa la fila ai negozi.
Il capitolo «Palomar allo zoo» chiude la seconda sezione. In questi inserti Calvino dà voce a esseri silenziosi che portano negli occhi senza più espressione lo strazio di vivere: il gorilla albino, Copito de Nieve, nella sua stranezza mostruosa è simbolo indimenticabile di questa sofferenza. E più che negli altri frammenti il trasporre l’immagine dall’animale alla condizione umana, magari di persone malate o in qualche modo diverse, è estremamente facile.
Passo passo, Palomar ha osservato il mondo e le stelle, le città dal suo terrazzo-osservatorio e si è fatto un’idea degli uomini guardando gli animali. Ora però bisogna andare verso gli uomini: siamo ormai all’ultima tappa, «Palomar in società». La terza sezione riassume e conclude l’intero cammino.
«In un’epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi il signor Palomar ha preso l’abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione».
Uomo tardivo dunque perché per mordersi le labbra e riflettere perde il contatto con l’attualità. La scrittura artistica è del resto sempre in ritardo, ripensa e rimastica, non è capace di abbozzare subito un giudizio. Lo scrittore, spesso spiazzato, reagisce con una sorta di sofferenza agli avvenimenti e non azzarda giudizi e si morde la lingua anche per questa implicita impotenza.
L’ultima serie di tre capitoletti si intitola «Le meditazioni di Palomar», dove il piccolo uomo pensa di applicare al paesaggio umano lo stupore cosmico intravisto nelle cose, in solitudine, e che gli ispira un senso di fiducia e anche di bontà:
«S’aspetta di vedere estendersi davanti a sé un paesaggio umano finalmente netto, chiaro, senza nebbie, in cui egli potrà muoversi con gesti precisi e sicuri. È così? Nient’affatto. Comincia a impelagarsi in un garbuglio di malintesi, vacillazioni, compromessi, atti mancati: le questioni più futili diventano angoscianti, le più gravi si appiattiscono; ogni cosa che lui dice o fa risulta maldestra, stonata, irresoluta. Cosa è che non funziona?».
Palomar è dunque nella sua delicata leggerezza nipote di Zeno e degli inetti a vivere del nostro secolo L’amarezza di Calvino, quasi atona sempre sorvegliata attraverso uno stile perfetto senza sobbalzi o traumi, è percettibile nel finale di questo penultimo frammento che annuncia la prossima morte del cosmo e del personaggio pensante: «In fondo il cielo stellato, sprizza bagliori intermittenti come un meccanismo inceppato, che sussulta e che cigola in tutte le sue giunture non oliate, avamposti d’un universo pericolante, contorto, senza requie come lui».
La parola bagliori intermittenti ricordA i termini dell’utopia discontinua. Consideriamo l’ultimo passo dell’uomo che non è ancora arrivato. Ora vuole imparare ad essere morto in seguito alla cocente sconfitta subita mentre cercava di applicare al paesaggio umano le sue osservazioni cosmiche.
Finirà la sua ansia in questa suprema atarassia?
«Batte l’onda sullo scoglio e scava la roccia, un’altra onda sopravviene, un’altra, un’altra ancora; che lui ci sia o non ci sia tutto continua ad avvenire».
Immagine classica del divenire della vita l’onda che si rifrange sugli scogli o sulla sabbia come all’inizio dell’itinerario di Palomar quando cercava di definire ciò che sfugge e ritorna («Lettura di un’onda»). Il succedersi delle cose sotto il sole è sempre uguale che ci sia o non ci sia Palomar. Il suo silenzio-parola volge a considerare i vantaggi e gli svantaggi di essere morto e di guardare le cose come se non capitassero più a lui, in una completa indifferenza. Pensa alla sua vita come un insieme chiuso tutto al passato: sempre più tenue la speranza che qualcosa di nuovo possa intromettersi e cambiare.
Nell’ultima pagina ecco che Palomar, finalmente, pensa all’uomo. Se non riesce a pensare ad un singolo uomo, ad un altro, almeno mostra di tenere a cuore le sorti dell’umanità, dei suoi simili. Lo fa proprio pensando alla morte:
Palomar pensando alla propria morte pensa già a quella degli ultimi sopravvissuti della specie umana o dei suoi derivati o eredi: sul globo terrestre devastato e deserto sbarcano gli esploratori d’un altro pianeta, decifrando le tracce registrate nei geroglifici delle piramidi e nelle schede perforate dei calcolatori elettronici; la memoria del genere umano rinasce dalle sue ceneri e si dissemina per le zone abitate dell’universo. E così di rinvio in rinvio si arriva al momento in cui sarà il tempo a logorarsi e ad estinguersi in un cielo vuoto, quando l’ultimo supporto materiale della memoria del vivere si sarà degradato in una vampa di calore, o avrà cristallizzato i suoi atomi nel gelo di un ordine immobile».
Se il tempo ha una fine, è il candido pensiero di Palomar, si può descriverlo. È l’ultimo scherzo di Calvino che fa risorgere la voglia di vivere nel suo personaggio per poi farlo immediatamente morire. Un «leggero», tragico ossimoro per l’omino che, suo malgrado, è arrivato.
«“Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, – pensa Palomar – e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine”. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore».

No Comments

Leave a Reply

Your email is never shared.Required fields are marked *