Intervista a Eraldo Affinati, dal sito Il mercoledì delle interviste. Eraldo incontra gli studenti di Roma-Tor Vergata lunedì 20 ore 13-15 aula T30

L’insegnante e lo scrittore hanno proprio questa responsabilità, la responsabilità della parola”

“La responsabilità a cui penso io è quella di Dostoevskj quando disse: «Io mi sento responsabile non appena un uomo posa il suo sguardo su di me». Questo tipo di responsabilità fu disattesa ad Auschwitz ed è ancora oggi disattesa da molti di noi, perché quel tipo responsabilità che io chiamerei assoluta è pre-sociale, pre-morale, pre-giuridica, viene prima di tutti i sistemi e distingue l’uomo dall’animale. L’insegnante e lo scrittore hanno proprio questa responsabilità, la responsabilità della parola per esempio”

Si fa una gran cosa, quando si riesce a portare la memoria fuori dal terreno della rievocazione, dell’omaggio più o meno formale, più o meno doveroso, per far sì che riguardi davvero la vita di tutti noi. Perché la memoria non deve registrare solo cosa è successo, ma come diceva Italo Calvino deve tenere insieme l’impronta del passato e il progetto del futuro. Ed è proprio questo che è successo al Teatro Dante di Campi Bisenzio, con Eraldo Affinati.

Eraldo ha scritto molti libri importanti, ma questa conversazione non poteva non prendere spunto da Campo del sangue, racconto del suo viaggio da Venezia e Auschwitz, con un bagaglio per niente leggero di ricordi, testimonianze, riflessioni, pagine che contano.
Viaggio della memoria, cioè viaggio e memoria: due tipi di esperienze che sono anche due modi di alimentare la vita, di accogliere il cambiamento. E così parlare di Campo del sangue è stata l’occasione per affrontare i temi da cui non si può prescindere. La libertà, la responsabilità, il coraggio della scelta…. solo per dirne alcuni.
Parafrasando Eraldo Affinati: partire per un viaggio così significa davvero provare a scoprire le notizie sulla specie a cui apparteniamo.
Da un incontro così si ritorna tutti con qualcosa in più. Per esempio con una bellissima frase di Dostoevskij: “Siamo sempre responsabili di tutto e di tutti, davanti a tutti, e io più di tutti gli altri”.

Per esempio, con uno straordinario ricordo di Eraldo, che nella vita fa anche l’insegnante. Quando ha ricordato di aver avuto tra i suoi studenti un ragazzo che ostentava svastiche e altri simboli nazisti, e lui non si è indignato, non gli ha scaraventato addosso chissà quali rimproveri, ma ha affidato tutto a un libro di Heinrich Böll: e quel ragazzo ha letto, ha capito, si è appassionato, ha condiviso.

Ma qui si entra in un altro discorso, sul potere dei libri. O almeno di quei libri come carne viva che per una sera sono stati anche un ponte con Eraldo Affinati.

Paolo Ciampi

Paolo Ciampi: Prima del “perché” di questo viaggio, ti vorrei chiedere qualcosa sul “come”. Indichi due requisiti, infatti: viaggiare un poco al di sotto del bisogno e la volontà di conquistare un ritardo, magari andando a piedi, accettando questa condizione di assoluta vulnerabilità del camminatore. Perché camminare? Perché accettare il poco in questo viaggio? Era necessario?

Eraldo Affinati: Il “come” è legato anche al “cosa”. Voglio raccontarvi perché feci questo viaggio nel 1995, io che non ero un esperto di campi di concentramento ma un insegnante che per puro caso si era confrontato con questo tema all’inizio, mentre invece c’era dentro di me una radice familiare profonda che col tempo ho capito avermi spinto lì.

Qual era questa radice? Diciamo che tutto nasce da mio nonno materno, che si chiamava Alfredo Cavina, era un partigiano fucilato dai nazisti il 6 luglio 1944 a Pieve di Quinta, appena fuori Forlì. Da bambino vedevo la fotografia di questo mio nonno e in fondo non sapevo chi fosse; chiedevo a mia madre ma lei tendeva a rimuovere la figura di suo padre, non voleva darmi una risposta precisa. Poi mano a mano che crescevo mi sono reso conto di quello che era successo: dopo la morte di mio nonno, fucilato assieme ad altri nove ostaggi, mia madre, all’epoca diciassettenne, venne arrestata dai nazisti e imprigionata a Bologna. Ad un certo punto la misero su un vagone che l’avrebbe condotta in Germania. Mia madre non era ebrea, era figlia di questo partigiano e per questo venne messa su questo treno, non nel vagone piombato ma in uno aperto, anche se sotto la stretta sorveglianza di due SS e di alcune ausiliarie tedesche che la controllavano. Arrivato alla stazione di Udine il treno si fermò per una sosta e lei vide una persona che voleva farla fuggire, capì che era un partigiano che aveva compreso la sua situazione e voleva aiutarla, solo che cosa avrebbe potuto fare lei, visto che era imprigionata? Ebbe l’intuizione di chiedere il permesso di scendere all’SS che la sorvegliava per andare a prendere un po’ d’acqua alla fontanella. Nel trambusto che si venne a creare alla stazione per l’arrivo di un treno e la partenza di un altro con le persone che scendevano e che salivano, lei ebbe la prontezza di entrare in mezzo alla folla e il soldato non poté sparare contro tutti. La perse di vista e non appena lei uscì dalla stazione, l’uomo che le aveva fatto segno la fece montare in bicicletta e lei si salvò.

Questo era successo il 2 agosto 1944 ed io per sapere questa cosa ho dovuto lavorare molto con mia madre; lei l’aveva proprio nascosta, l’aveva rimossa, non voleva parlarmene. Con gli anni ho compreso che se lei non fosse fuggita né io né mio fratello saremmo nati; probabilmente lei sarebbe stata presa in un campo speciale, a cui era già stata destinata.

Ho iniziato a leggere libri sui campi di concentramento, mi sono documentato, ho studiato, ho riflettuto però ad un certo punto perché ho fatto questo viaggio? Perché mi sono sentito insufficiente rispetto alle cose che andavo scoprendo nei testi; ho capito che avrei dovuto compiere un gesto, non leggere soltanto, per far sì che questa mia consapevolezza diventasse chiara anche ai miei occhi. Decisi di compiere questo viaggio, andare da Venezia ad Auschwitz. Tu mi chiedi “come”: innanzi tutto non da solo. Ho coinvolto due amici in questo percorso che per me è stato un percorso difficile perché abbiamo deciso di fare il viaggio a piedi, non in treno, non in aereo.

Abbiamo fatto un percorso che definirei “povero” partendo da Venezia e seguendo la linea della deportazione italiana: Tarvisio, Austria, Slovacchia e infine Polonia, da Cracovia ad Auschwitz. Abbiamo impiegato circa 20 giorni per arrivare in Polonia e nel corso del viaggio chiedevamo molto a noi stessi, ci scambiavamo opinioni, cercavamo di riflettere sul senso di quello che stavamo facendo. Questo è stato il “come”. E’ stato un viaggio per conquistare quel ritardo a cui facevi riferimento, perché volevamo fare in modo che questo ritardo ci potesse aiutare a capire dentro di noi in che senso eravamo coinvolti in questo viaggio, perché subito compresi che il tema della concentrazione non era soltanto una cosa del passato e questa è stata la mia prima intuizione.

Era una cosa che riguarda oggi la mia attività quotidiana e riguarda tutti noi.

Poi, abbiamo deciso di arrivarci cercando di simulare il percorso dei deportati.

Durante il viaggio è come se fossi andato idealmente mano nella mano insieme agli autori che avevo letto: Levi, Borowski, Wiesel, Semprún.

Gli scrittori, i testimoni per me sono stati delle guide e quando ho scritto questo diario, una volta tornato a Roma, mi sono affidato a loro. Nel libro infatti, le parti in corsivo, citazioni dagli scrittori che avevo letto, sono insieme alle mie riflessioni di viaggiatore. Ho cercato, così, di concepire una scrittura che potesse essere corale perché questo viaggio non l’ho fatto da solo ma ero mano nella mano con gli altri.

Paolo Ciampi: “Campo del sangue” infatti alterna diario di viaggio e riflessioni etico-politiche, in un genere letterario reso ancor più singolare dalla straordinaria ricchezza di citazioni relative al tema concentrazionario. Perché la scelta di una tipologia narrativa così ardita ed originale?

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Eraldo Affinati: Di ritorno da Auschwitz non avevo ancora nessuna idea sulla forma che avrebbe dovuto avere “Campo del sangue”. Avrei potuto scrivere senz’altro un romanzo, un diario o un saggio, ma ho subito scartato questi tre generi. Non potevo usare una forma narrativa romanzesca per raccontare un’esperienza così densa di realismo. Il diario l’ho scartato per il timore che potesse attirare l’interesse del lettore soltanto su di me, rendendomi così l’unico oggetto d’attenzione; la composizione saggistica mi sembrava fosse troppo razionale, troppo algida, troppo fredda nel suo ragionamento.

Ho tentato di risolvere tali difficoltà, intervallando il racconto del mio viaggio ad impressioni del ricordo familiare e a citazioni in corsivo, tratte dagli autori che avevo letto, da Primo Levi a tutti gli altri. Mi è sembrato che in questo modo il libro potesse funzionare, perché configurava, a quel punto, un rapporto tra me e gli altri scrittori. “Campo del sangue” ha rappresentato, e rappresenta per me un evento davvero importante. E’ come se questo libro mi chiamasse a render conto di quello che ho fatto, come se mi accorgessi della necessità di raccontare e di comunicare ancora quello che ho visto.

Paolo Ciampi: Tu definisci gli scrittori appena citati come guide; questo è veramente un libro popolato di tante altre voci di scrittori che ci hanno raccontato quello che è successo e quello che si deve provare ancora oggi rispetto a quello che è successo.

In fondo al libro metti anche una preziosa ed utile bibliografia e nel testo scrivi “scorrendo i titoli rivivo una stagione dell’esistenza fatta di luoghi, idee, scoperte umane alla quale sento di essermi legato”.

Questi scrittori sono stati soltanto guide? Cosa hanno prodotto in te? Cosa hanno cambiato in te? Qual è stato il senso dell’esperienza di queste letture? si può andare ad Auschwitz soltanto con i libri o attraverso questi libri o ad un certo punto, bisogna partire ed andare a vedere Auschwitz dal vero?

Eraldo Affinati: Diciamo che i libri sono importanti nel senso che devi comunque conoscere quello che è successo e documentarti prima di andare, però ad un certo punto questi libri vanno resi “carne viva”, vanno realizzati.

Qual è l’insegnamento che personalmente posso aver tratto? Ho cominciato a credere che dobbiamo pensare a un concetto di responsabilità nuova, non soltanto giuridica, quella di cui parla ad esempio Dostoevskj quando scrive: «Io mi sento responsabile non appena un uomo posa il suo sguardo su di me». Questo tipo di responsabilità fu disattesa ad Auschwitz ed è ancora oggi disattesa da molti di noi, perché quel tipo responsabilità che io chiamerei assoluta è pre-sociale, pre-morale, pre-giuridica, viene prima di tutti i sistemi e distingue l’uomo dall’animale. Se tu ti senti responsabile dello sguardo altrui è come se tu ti sentissi responsabile anche dei contesti nei quali tu operi, non soltanto della tua professione. A quel punto puoi evitare l’ingiustizia, perché è facile reagire quando l’ingiustizia capita a noi ma è più difficile reagire quando l’ingiustizia riguarda un principio che ritieni oltraggiato, quindi qualcosa che non riguarda te stesso ma magari la persona che ti sta vicino o addirittura uno sconosciuto. Ecco la ragione per cui prima dicevo che Auschwitz riguarda l’oggi, non ieri; perché questo tipo di responsabilità, che è la vera responsabilità umana, lì non c’è stata.

Se oggi riuscissimo a realizzare questo tipo di responsabilità assoluta avremmo realizzato l’unica vera rivoluzione, fra tutte quelle fallite nel Novecento. Possiamo farlo in ogni momento. L’insegnante e lo scrittore hanno proprio questa responsabilità, la responsabilità della parola per esempio: io sono un insegnante e come insegnante cerco di mettere in pratica questo tipo di responsabilità perché quando entro in aula e parlo con i ragazzi, mi accorgo e so perfettamente che quello che dico può incidersi in modo indelebile nella percezione dell’adolescente che ho di fronte. Lì davvero eserciti una responsabilità assoluta.

Questo è il vero insegnamento di Auschwitz, di Treblinka, di Sobibor, di Mauthausen. Questa è la cosa che riguarda oggi; non è soltanto un fatto accaduto tanti anni fa, non è soltanto un abominio politico e storico. E’ un elemento antropologico perché i campi di concentramento ci hanno rivelato alcune cose sugli uomini che prima non sapevamo.

Prima sapevamo che l’uomo era cattivo però per la prima volta, ad Auschwitz, sono stati usati dei sistemi tecnologici che prima non c’erano. Si è arrivati ad uno sterminio di tipo industriale; si è ucciso a catena, come si costruiscono le automobili. La specificità della Shoah è questa, il sistema tecnologico, amministrativo, industriale che è stato messo in atto. E questo è l’elemento inaudito.

Quello che accadeva all’interno delle baracche non lo sapremo mai; Primo Levi ha scritto nel suo ultimo libro “I sommersi e i salvati” che la storia noi la sappiamo dai salvati, ma i sommersi, coloro che non possono parlare, non sappiamo quello che veramente hanno vissuto. Sono loro che avrebbero potuto raccontarci questa storia. Noi siamo sempre sulla memoria dei salvati e oggi stanno per morire gli ultimi testimoni; per motivi anagrafici tra qualche anno non avremo più la persona che ti mostra il numero tatuato sul suo braccio e quando non avremo più quei testimoni rimarremo solo noi, coloro che sono venuti dopo: ecco perché è decisivo per noi consegnare il testimone alle generazioni che vengono dopo. Se non facciamo questo, fra 50 o 100 anni Auschwitz sarà probabilmente quello che oggi è Rapa Nui, l’Isola di Pasqua, ossia un insieme di resti archeologici su cui gli studiosi ancora si affannano a discutere.

Ho conosciuto personalmente il più grande revisionista della storia, David Irving, e mi ha fatto un’ impressione incredibile vedere questo grande revisionista che nega l’esistenza dei campi di concentramento e l’entità della Shoah. Sono stato a Londra nella sua casa ed ho visto sul suo computer che arrivavano finanziamenti da tutto il mondo per sostenere le sue idee revisioniste e quello mi ha fatto capire che ogni generazione ricomincia da capo, per cui è importantissimo che chi viene dopo di noi rifaccia questo percorso di consapevolezza che io nel mio piccolo ho fatto, perché prima non sapevo niente ma mi sono documentato e ho cercato di capire cos’era successo.

In qualche modo io ero chiamato in causa ma credo che tutti dovremmo sentirci chiamati in causa; non è un problema dei tedeschi, degli italiani perché tutti i popoli collaborarono. Se non ci fossero stati gli ucraini, i lituani, gli italiani, i collaborazionisti, i nazisti non avrebbero mai potuto fare quello che hanno fatto, in quella proporzione.

Paolo Ciampi: A proposito della questione della scomparsa dei testimoni: come si fa a trasmettere la memoria dopo che gli ultimi testimoni sono scomparsi? Ci vogliono libri come il tuo, viaggi come questo, esperienze?

Eraldo Affinati: Vanno messe in azione le menti umane, creare una vegetazione sociale propizia per prendere coscienza di quello che è accaduto. Ma il processo di consapevolezza è individuale perché quando si arriva davanti al campo e si vedono fisicamente i meccanismi dello sterminio ognuno di noi reagisce a modo suo perché ognuno di noi mette alla prova le proprie certezze religiose, morali, politiche, intellettuali. Ognuno di noi si sente chiamato in causa ma questo confronto è importantissimo; non si può dire “bisogna fare così” perché ognuno di noi è diverso dall’altro e può reagire in modo diverso.

Credo che sia molto importante dare la domanda prima ancora che la risposta, perché se tu non ti poni domande non avrai mai nessuna risposta, ma la vera risposta sta nell’intensità della domanda: tanto più forte sarà la tua domanda, tanto più forte potrà essere la tua risposta. Quando vai lì, vedi quello che è successo e ti chiedi come sia stato possibile, ti senti veramente toccato, quello è il momento importante in cui si apre lo spazio magnetico dentro di te e puoi dare il tuo contributo. Va creato questo percorso che però deve essere individuale e soggettivo, perché solo così ti può toccare veramente.

Paolo Ciampi: Questo libro è un continuo salto di tempo, di voci, è veramente un libro corale. Se fosse un film lo immaginerei con un montaggio molto rapido, molto secco, con la telecamera che cambia continuamente inquadratura. All’interno di questi passaggi rapidi ci sono molte citazioni; ad un certo punto richiami Malinowski, l’antropologo. Un uomo che è andato a studiare le popolazioni del Pacifico, della Nuova Guinea e dici: “Credo di essere diretto ad Auschwitz con lo stesso obiettivo che aveva Malinowski quando si recò tra gli indigeni della Nuova Guinea. Scoprire le notizie sulla specie a cui appartengo”. Hai realizzato questa missione? Quali notizie hai riportato da questo viaggio?

Eraldo Affinati: Notizie poco rassicuranti perché la natura umana è una natura pericolosa, inutile illudersi del contrario. Del resto lo stesso Primo Levi nel concetto di “zona grigia” ce l’ha spiegato con chiarezza quando ci ha detto che non si possono dividere chirurgicamente i buoni dai cattivi, c’è sempre la zona grigia che unisce le vittime e i carnefici, ed è quella dimensione in cui tutti noi viviamo. Il male assoluto magari non esiste però esiste la zona grigia, quel momento in cui ognuno di noi potrebbe scegliere tra bene e male e spesso si trova in una dimensione di compromissione. Lui stesso diceva che quando rubava il pane del deportato entrava nella zona grigia e detto da chi si trovava nella condizione di dover sopravvivere fa impressione il rigore morale che applicava su se stesso.

La natura umana è pericolosa e, soprattutto in certi momenti storici con la dittatura, il totalitarismo, possono emergere in noi, persone ordinarie, alcuni elementi ferini. Quello che colpisce nella Shoah è che i carnefici non erano persone sadiche, speciali, diverse da noi; se fossero state così oggi potremmo dire che è una cosa che non ci riguarda, perché non siamo così. Invece, purtroppo, il grande massacro è stato compiuto da persone ordinarie, persone che facevano mestieri qualsiasi, che aprirono e chiusero una parentesi nella loro vita durante la guerra e che pretendevano di tornare normalmente alla vita che avevano svolto prima della guerra.

Questo ci fa capire che esiste nella natura umana qualcosa di veramente pericoloso, però aggiungo anche che ci sono elementi positivi cioè persone capaci di testimoniare qualcosa di realmente positivo, come padre Kolbe, un eroe. Oppure anche episodi che hanno avuto come protagonisti persone semplici.

Lo scrittore Robert Antelme ricordò nel libro “La specie umana” un episodio che gli capitò; lui era un deportato e si trovò ad avere un rapporto di amicizia con un civile tedesco che lavorava all’interno del lager. Questo civile non era un SS, non era un soldato, però lavorava nel lager e di nascosto strinse la mano al deportato Antelme; se l’SS avesse visto questo gesto di solidarietà, di fraternità il civile tedesco sarebbe stato portato immediatamente dall’altra parte del reticolato. Quell’uomo rischiò moltissimo a compiere quel gesto e Antelme scrivendo molto tempo dopo “La specie umana” disse che per lui il ricordo di quel tedesco che volle dargli segno di fratellanza buttò giù tutti i reticolati, tutte le camere a gas, perché gli dette conferma che ci può essere ragione della speranza in un singolo uomo. E questi piccoli episodi ci sono stati nei lager; certo non erano frequenti ma c’era sempre la possibilità di poter marcare una differenza.

C’erano anche i cosiddetti fucilatori di professione, coloro che dovevano fucilare e basta, e per tanti anni abbiamo pensato che fossero obbligati a farlo, invece alcuni studiosi americani ci hanno dimostrato che se qualcuno si fosse rifiutato non gli sarebbe successo niente. Infatti, a quei due o tre che lo fecero dicendo di non poterlo fare perché i soldati uccidono i nemici ma non gli uomini inermi, non venne fatto nulla, vennero destituiti e portati su un altro fronte. Questo lo dico perché c’è sempre la possibilità di riuscire ad operare una scelta, anche quando sembra impossibile.

Io ho scritto un altro libro, dedicato a Dietrich Bonhoeffer, un teologo protestante che fu fatto impiccare da Hitler pochi giorni prima della fine della guerra. Il suo è un altro esempio di un uomo che si è contrapposto a Hitler da cristiano ed è riuscito ad assumere una posizione militante, infatti è considerato il padre spirituale dell’attentato ad Hitler del 20 luglio 1944, quando Von Stauffenberg mise una carica di dinamite sotto il tavolo di Hitler nel tentativo di ucciderlo ma fallì; uno degli ideatori fu proprio Bonhoeffer. Quello è un altro esempio di un uomo che da tedesco è riuscito a contrapporsi, anche se fece una brutta fine.

Paolo Ciampi: La lettura del brano in cui parli di Padre Kolbe è molto potente e non sai se è più forte il senso di ammirazione per queste figure o il senso di impotenza, orrore per tutto quello che è successo. In questo libro ti poni molte volte la domanda su come sia stato possibile, come mai siamo arrivati a questo. Qualcosa ci hai già detto, anche parlando della “banalità del male”, e ti chiedo se sei riuscito a tornare da questo viaggio con qualche elemento in più di risposta, sei stato in grado di tornare con qualche frammento in più di spiegazione a questo che non so se definire male assoluto?

Eraldo Affinati: Diciamo che le ragioni storiche non mi hanno soddisfatto, nel senso che è chiaro che tutti noi sappiamo quali sono state le radici del nazismo ma mi restava sempre qualcosa di inespresso, misterioso e, ripeto, l’abominio che hanno perpetrato i popoli europei, non solo i tedeschi, negli anni Quaranta, resta qualcosa che ti fa capire che l’uomo davvero è un essere pericoloso e quindi quello che mi sono portato dietro da Auschwitz è stata una spinta verso il fare concreto.

Pensavo che una volta finito questo libro, uscito ormai nel 1997, avrei chiuso i conti, come se avessi vuotato il sacco. In effetti è stato per me una stagione di lavoro, di studio, non solo un viaggio. Poi però con gli anni ho capito che questo libro non era finito, era tipograficamente terminato ma mi chiamava a continui appuntamenti. L’ho presentato in Francia, in Germania a Berlino, parlando ad una platea di tedeschi e ricordo che quando parlavo e avevo di fronte due o tre generazioni c’era come un tabù. Stavamo in Potsdamer Platz, vicino al luogo da cui Hitler si affacciava e ad un certo punto mi sono reso conto che questo libro continuava a crescere fuori e dentro di me, nel senso che anche la mia attività quotidiana di insegnante tante volte mi ha portato a mettermi in gioco proprio su questi temi. Ho avuto dei ragazzi naziskin in classe e ricordo questo ragazzo con lo zaino con le svastiche sopra e come l’ho affrontato? L’ho semplicemente informato, ho cercato di raccontargli innanzitutto il senso che quei simboli avevano e poi ricordo di avergli dato da leggere “Il treno era in orario” di Heinrich Böll, la storia di un giovane tedesco della Wehrmacht che si trova sul fronte russo e capisce il nazismo andando a combattere. Quando questo ragazzo tornò dopo aver letto il libro ricordo che era entusiasta, non me lo tirò addosso come mi aspettavo ma lo raccontò ai suoi compagni scrivendo alla lavagna i nomi dei personaggi, le sequenze tematiche ed io ero ammirato.

Ad un certo punto mi resi conto che usava quei simboli come se fossero dei tatuaggi, graffiti in metropolitana e cercava di provocare in noi una reazione. Compresi che aveva una forma di fragilità interiore, un’ insicurezza, un senso di smarrimento e cercava di nascondere tutto questo con l’esibizione di questi simboli che aveva visto. Erano simboli scottanti, clamorosi e quindi ideali a suscitare una reazione vitale nelle persone che incrociava.

Dopo è cambiato e mi sono reso conto del potere della letteratura perché questo libro lo ha cambiato ma mi ha fatto anche capire il lavoro che va fatto giorno per giorno, continuamente perché i ragazzi che l’altro giorno a Roma hanno assalito i bengalesi alla Magliana non è che si siano mossi in modo diverso; si sono mossi con lo stesso atteggiamento con cui si muovevano le squadre hitleriane. Per cui è presente nell’uomo quella paura, quell’insicurezza che può produrre l’arroganza, la violenza e la sopraffazione; perché se tu ti senti insicuro tendi a reagire a chi vedi diverso da te, se tu invece ti sentissi sicuro, se la tua identità fosse certa, non avresti paura di confrontarti con gli altri. Ti sentiresti arricchito da loro. E’ quando c’è questo tarlo di insicurezza che nasce quel vuoto da cui possono germinare queste mostruosità.

Ecco perché mi sentivo insoddisfatto dal punto di vista storico, perché capivo che era un meccanismo antropologico. Ecco la ragione perché il mio sguardo non è solo politico, perché sono cose che possono continuare e vanno avanti ancora oggi.

Il razzismo è un impulso irrazionale che poi viene strutturato razionalmente con piani precisi; è proprio questo impulso irrazionale che va combattuto al fine di evitare la pianificazione razionale.

Paolo Ciampi: Al tuo arrivo ad Auschwitz quali sono state le emozioni provate? Hai provato l’inadeguatezza della parola per descriverle?

Eraldo Affinati: Mi ricordo dell’avvicinarsi al lager in una Polonia che sembrava quella degli anni Quaranta. Sembrava di essere giunti alla fine della civiltà industriale.

Scesi dal treno abbiamo proseguito a piedi e percorrendo quel sentiero ho avuto l’impressione di essere giunto finalmente dove volevo. Come sapevano i greci, si scopre solo quello che già conosciamo, si parte sempre per ritornare. Raccogliamo il testimone di chi ci ha preceduto facendo sì che l’illusione del senso non vada smarrita.

Io e gli amici avevamo deciso di comune accordo che ognuno di noi si sarebbe recato nel campo da solo, cercavamo l’ultima risonanza interiore, perché questa esperienza implica ripensamenti su tutte le proprie certezze.

Quello che ho capito è che non si deva andare là per trovare soluzioni; anzi, molte volte si aprono delle ferite.

Ad un certo punto della visita al campo ho sentito tutta la babele di voci che mi ero portato dietro, ho rievocato tutti gli autori cari ed ho compreso che i concetti di responsabilità, libertà e coscienza ruotano attorno a quello della memoria.

Da qui anche l’importanza della scoperta delle proprie radici. Ho capito che se uno va indietro, va a cercare la propria storia e tocca le proprie radici, si accorge che queste radici non sono soltanto sue ma si intrecciano a quelle di tutti gli altri, proprio come una pianta.

Se tocchi le tue radici è come se facessi vibrare tutta la pianta e conquistassi una coralità, nel senso di unione: far vibrare la tua radice, che può sembrarti solo personale, in realtà fa vibrare anche le altre radici. E’ questa connessione di radici umane che ho capito essere realmente importante.

Tags: Auschwitz, Campo del Sangue, Eraldo Affinati, Nazismo, Olocausto, Paolo Ciampi

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