Cosa sono gli altri per noi, si chiedeva Pavese, vergando una drammatica nota nel Mestiere di vivere alla notizia della morte per le torture fasciste di Leone Ginzburg….

Vite che non sono la mia (1)

E’ considerato uno dei maggiori scrittori contemporanei, Emmanuel Carrère. Vite che non sono la mia (D’autres vies que la mienne),
libro irritante (forse perché è lo specchio ustorio dello studioso, dell’intellettuale) in quasi tutta la prima parte, ha poi, raccontando le vite di altri e non la sua incapacità a condividerle, delle pagine toccanti, commoventi, vere.

Emmanuel-Carrère-1

La realtà occupa la pagina in modo più fantasioso e drammatico di quanto possano le riflessioni dello scrittore, a cui va dato merito, inusuale, di essersene accorto, pur mantenendo una distanza (nel momento stesso in cui fa di tutto per non averla) che rimane urticante.

E che significa poi l’esterno quando tutta l’isola è colpita? Nessuno è stato risparmiato, ognuno si occupa dei propri morti. Ruth dice così, eppure vede bene che io ed Hèlene [moglie dello scrittore] l’abbiamo scampata. Siamo indenni, siamo insieme, indossiamo abiti puliti, non cerchiamo nessuno in particolare. Dopo questa visita all’inferno, torneremo al nostro albergo dove ci serviranno il pranzo. Faremo il bagno in piscina, baceremo i nostri figli pensando che ci è mancato poco. La cattiva coscienza non fa progredire.

Quella coscienza mortificata di non poter far nulla, fustigante voce di sottofondo che, se parte da una autenticità, diventa autocommiserazione di fronte alla continue sollecitazione, rifiutate, della realtà. Inettitudine e paralisi di per sé umane, non condannabili, se non fosse quella accettazione della distanza alla fine ostentata in una umiltà untuosa, falsa di fronte ai drammi degli altri. Prima lo tsunami in Sri Lanka, nel 2004, dove la famiglia dello scrittore rimane indenne, ma deve assistere alla tragedia, in particolare alla morte di Juliette, ragazzina figlia di quattro anni di una coppia di francesi conosciuti in quella vacanza, subito di seguito l’agonia per tumore di un’altra Juliette, la cognata.
A partire da quella anaffettività irritante, con uno sforzo lodevole di volontà (ma non di cuore, se si deve credere al racconto), lo scrittore decide di scrivere quelle esistenze, con l’unica arma che ha per renderle vere a se stesso: la scrittura. Quella del reporter che intervista e riporta, di quello che ha sentito, senza registratore o cellulare, quello che ricorda.
«È allora che Carrère capisce che non può continuare a nascondersi e deve in qualche modo farsi carico di queste storie. Raccontare ciò che fa più paura. Ritrovare nelle vita degli altri».

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